Cannes 70: The Florida Project, la recensione

Appoggiato su uno stile semidocumentarista e troppo tardi pronto ad aprirsi alla finzione, The Florida Project è ottimo nelle intenzioni e meno negli esiti

Critico e giornalista cinematografico


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C’è di nuovo un luogo circoscritto dello spazio urbano al centro di un film di Sean Baker. Si tratta di quella zona ai limiti di Disneyworld, in Florida, che lo stesso Disney aveva immaginato come un luogo in cui ospitare i lavoratori del parco nelle successive espansioni. Queste espansioni non sono mai arrivate e ora il Florida Project è una zona a costo bassissimo, fatta di negozi eccessivamente colorati e a forma di ciò che vendono e motel usati come case popolari da cui i turisti che ci finiscono per sbaglio scappano. Vicino a Seven Dwarves Turnpike nel motel Magic Kingdom (tutto lilla) vivono le due protagoniste, mamma giovanissima e figlia bambina. Si mantengono con truffe e furtarelli, rischiano ogni giorno che i servizi sociali le separino e solo il custode del motel sembra volerle aiutare. Nondimeno la vita della piccola Moonee è fatta di azioni clamorose, giochi, amicizie estive, sputi sulle macchine e gelati rubati, allo spettatore adulto preoccupa al contesto ma il film è bambino con la sua protagonista e guarda tutto con letizia.

Questa bambina Sean Baker la insegue dalla prima scena (fantastica) fino all’ultima (un po’ meno), le sta appresso nelle giornate lunghe ed assolatissime, mentre fa amicizie e pianifica giochi nuovi. Letteralmente innamorato del carattere della sua protagonista (che non pare recitare ma essere se stessa), così affascinato dalla sua presenza da non vergognarsi nel riservarle tantissimi assolo lungo il film, momenti in cui è l’unica in scena e la scena è quel che lei decide di farne (il più bello è durante una colazione in un hotel), Baker gira un film coerente ma che soffre il semidocumentarismo e si apre quando è troppo tardi alla finzione.

Rispetto a quella bomba di Tangerine (in cui l’intreccio era da B movie: un travestito trascina con violenza una drogata per tutto il giorno alla ricerca del proprio fidanzato che l’ha tradita con lei) qui la trama è relegata agli ultimi minuti, come fossimo in un film di Eric Zonca o dei Dardenne di fine anni ‘90. Facciamo conoscenza e impariamo tutto di Moonee e sua madre lungo la gran parte del film, capiamo il custode dello stabile interpretato da Willem Dafoe (il personaggio più apertamente di finzione, il più sincero e stratificato) e le forze in campo, poi nel finale accade la svolta in grado di mettere in moto una spirale necessaria a trasfigurare il divertimento delle peripezie di Moonee in tragedia.

A quel punto il lilla del palazzo e i nomi assurdi delle strade non fanno più sorridere ma appaiono grotteschi e tragici: la tragedia umana che si può trovare anche altrove umiliata da un contesto ridicolo, decadente e rassicurante solo nella sua facciata.
Concettualmente The Florida Project non fa una piega e come sempre regala dei momenti di dinamismo stupendi come il già citato inizio tra le urla e il miglior “Fuck You!” gridato al cinema negli ultimi anni, con un carrello verso la bocca che sembra uscito da uno film dei primi film arrabbiati di Spike Lee. Ma nel complesso è un film che rimane impresso più per le potenzialità e le trovate che per il risultato.

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