Cannes 70: Oltre la Notte, la recensione

Parte benissimo In the Fade ma è solo un'illusione, perchè il resto del film va da tutt'altra parte, una più vaga e meno potente

Critico e giornalista cinematografico


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La sequenza più bella di In the Fade è quella che lo apre. Macchina a mano di qualità digitale bassa, un video amatoriale praticamente, che riprende un carcerato vestito in ghingheri farsi strada tra applausi e pacche sulle spalle degli altri detenuti, lo segue fino a che non entra in un’altra stanza e intanto parte I Got Sunshine dei Temptations. Si sta andando a sposare nel carcere, vediamo infatti la sposa e l’officiante, non hanno anelli e per questo se ne sono tatuati uno ognuno sull’anulare.
C’è tutto Akin: un senso di rispetto per il cuore nobile e per i sentimenti unito a quel legame che in lui è sempre fortissimo tra quello che si prova nell’animo e quello che accade nel corpo. Solo quando il secondo riflette il primo in qualche modo, solo se il sentimento ha una ricaduta visibile sulla carne allora davvero esiste.

Ma non è questo In The Fade, il film è un altro, una storia di vendetta e sete di giustizia. Subito dopo (ma nella storia sono passati anni) ci sarà un attacco omicida nel quale la protagonista vedrà morire figlio e marito. Si tratta di uno dei molti casi che negli ultimi anni si sono realmente succeduti in Germania, omicidi di estrema destra le cui vittime avevano la colpa di non essere tedeschi.
C’è però una traccia, un indizio, c’è forse una coppia colpevole che durante il processo verrà messa a nudo da una serie impressionante di prove a carico che tuttavia non convinceranno al 100% la giuria.

A questo punto il film è ad un bivio. Può diventare cinema di vendetta privata, il farsi giustizia da sé (o interrogarsi su quale senso abbia questa pratica) oppure cinema d’indagine umana (scoprire cosa c’è dietro queste persone, cosa li spinga). In the Fade sceglie con riluttanza la prima ipotesi ma, come si vedrà, sembra non essere convinto fino alla fine e così lentamente viene proprio a mancare il film.
Diane Kruger è la vedova determinata in una storia che non decolla, che presenta tutto quel che c’è da presentare ma non ha mai la determinazione di affrontare qualcosa che non sia l’attualità. Che senso ha la vendetta? Come ci appare questa donna in cerca di una forma di soddisfazione? La violenza la pervade? Il pentimento? Il rimorso? La speranza? La rabbia? Non traspare nulla, né da lei né dalle sue azioni che il film vuole contraddittorie.

Il nichilismo finale salva un po’ la baracca e mette il film su un altro piano rispetto al resto delle opere sul tema. Almeno ha il coraggio di osare, di sorprendere e di non andare a parare dove andrebbero tutti. Ma davvero è troppo poco! Non è pensabile accettare che un cineasta capace di così tanto si accontenti di fare così poco, di lavorare sull’indignazione più diretta (uccidere marito e figlio e per giunta per ideali razzisti con il vessillo di Alba Dorata dietro) senza porsi o scatenare le domande più opportune, senza occuparsi del sentimento ma solo impugnando una vaga idea di etica.

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