Cannes 70: Sicilian Ghost Story, la recensione

Con la trama degna di un film Amblin e un impianto visivo di prim'ordine Sicilian Ghost Story purtroppo vuole concedere poco e niente allo spettatore

Critico e giornalista cinematografico


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La Sicilia di Piazza e Grassadonia è l’unica in cui può davvero succedere di tutto, per questo è così frustrante veder accadre così poco.
Nei boschi di Sicilian Ghost Story, nelle sue prospettive deformate dal grandangolo e in quegli squarci da fiaba sembra davvero che qualsiasi svolta non stoni. Anche solo avendo visto l’inizio con due ragazzi che si inseguono per gioco, poi sopraggiunti da un cane il cui abbaio è squassante ed esagerato, tanto da sembrare uno sparo, si capisce che non ci troviamo nella Sicilia filmica che conosciamo, ma in una come il cinema non ne ha mai conosciute, una che a tratti sembra Norvegia e ad altri invece sembra un paesaggio notturno di Jean Pierre Jeunet.

Sciolte le briglie a Luca Bigazzi (secondo immenso direttore della fotografia con cui i due registi collaborano dopo Daniele Ciprì nel precedente Salvo) Sicilian Ghost Story vanta un look e una marca visiva che salvano in più momenti l’equilibrio da una recitazione terribile che invece lo affossa. Questo film tra l’onirico e il concreto, alimentato da una specie di realismo fantasy nello stile di Del Toro (quello che associa ai drammi della vera storia, figure di pura mitologia), racconta di un rapimento di mafia: il figlio di un pentito viene sequestrato e l’unica che davvero lo cerca è la ragazza che ne è innamorata, a sua volta aiutata da un gufo che pare incarnare i fantasmi del titolo. Sembra l’intreccio di un film d’avventura per ragazzi Amblin dei primi anni ‘80 e a tratti l’impressione è proprio che sia quella l’ispirazione (le parti a scuola sono inaspettatamente riuscite), non fosse però per la pervicacia con la quale il film lavora per spogliare questo svolgimento di ogni appeal commerciale.

Piazza e Grassadonia preferiscono di gran lunga il suggerimento all’esposizione, l'astrazione alla narrazione canonica e in alcuni momenti sembrano davvero avere ragione a farlo (la visione al lago che quasi costa la vita alla protagonista è da applausi un gran momento di cinema artigianale e guizzi creativi). Però troppo a lungo si prova un senso di frustrazione nei riguardi di un'opera visivamente stupenda che si rifiuta di fare un passo verso il pubblico, si rifiuta di dare alla storia il ritmo che meriterebbe.

Addirittura anche i personaggi di contorno (recitati male come quelli principali) sembrano disegnati bene, ma fanno pochissimo.
Una compagna di classe figlia di ignoranti con molti fratelli che mena come un fabbro ma si tinge i capelli blu per solidarietà o una comunicazione da casa a casa con le torce, sono trovate fantastiche, però poi ogni volta che ci trasferiamo nel tugurio dov’è prigioniera la vittima quanto ben costruito viene buttato via sia in termini di ritmo che di qualità.
Alla fine quel che rimane in questo film che sacrifica l’intrattenimento senza guadagnare altro è l’impressione che il miglior cinema non sia bastato.

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