Cannes 70: Radiance, la recensione
Pensato per essere un'ode al rapporto tra parola e immagini, Radiance è un coacervo di immagini e suggestioni degne del peggior romanzetto rosa
Condividi
Bisogna avere una predisposizione d’animo per la poesia declamata e i tramonti sul mare per apprezzare Radiance. Ma forse nemmeno quella basta.
Naomi Kawase esibisce in questo film una così smaccata voglia di romanzetto e di ripulire la coscienza del film a colpi di frasi dal marcato accento pretenzioso, che è molto difficile mantenere la calma durante la visione e non cedere al nervoso.
Già la trama non è delle più promettenti: una donna che di lavoro fa le audiodescrizioni dei film (quelle utili a farli capire ai non vedenti), lotta per tradurre a parole le immagini di un film in particolare e nel farlo stringe un rapporto con un fotografo diventato non vedente quasi del tutto che fa parte del gruppo test con cui prova l’audiodescrizione.
La gran parte di Radiance infatti è costituita da eventi slegati tra loro e sentenze declamate che dovrebbero bastare a sè. Sentenze degne di The Lady come “Nulla è più bello di ciò che scompare”, detto mentre con una mano si cancella un disegno sulla sabbia, oppure “L’amore è infinito”, detto facendo scivolare granelli di sabbia tra le dita di un pugno. L’immaginario di riferimento è quello di un booktrailer rosa, mancano le sovrimpressioni con i gabbiani ma per il resto c’è tutto e quel che non presenta Radiance lo fa il terribile film nel film, quello di cui la protagonista fa l’audiodescrizione, un coacervo di ralenti, statue di sabbia di belle donne che crollano e un foulard lasciato andare al vento con lo sfondo delle onde del mare che si infrangono sulla battigia.
Continua a leggere su BadTaste
Naomi Kawase esibisce in questo film una così smaccata voglia di romanzetto e di ripulire la coscienza del film a colpi di frasi dal marcato accento pretenzioso, che è molto difficile mantenere la calma durante la visione e non cedere al nervoso.
Già la trama non è delle più promettenti: una donna che di lavoro fa le audiodescrizioni dei film (quelle utili a farli capire ai non vedenti), lotta per tradurre a parole le immagini di un film in particolare e nel farlo stringe un rapporto con un fotografo diventato non vedente quasi del tutto che fa parte del gruppo test con cui prova l’audiodescrizione.
Non giunge quindi come una sorpresa che Radiance abbia a che vedere con il rapporto tra parola e immagine, la difficoltà se non impossibilità di tradurre con il linguaggio le sensazioni di un’immagine sonora in movimento. In questo senso le riunioni, le prove e le discussioni intorno al formarsi dell’audiodescrizione sono la cosa migliore, i pareri naive del pubblico che fa da test e i contrasti con la produzione, ciò che ha senso e ciò che non lo ha per un non vedente, è la parte più concreta e sensata di un film che per il resto sembra nutrire una specie di culto del pianto.
Per stomaci fortissimi.