Cannes 70: Okja, la recensione

Leggero e dalla morale facile facile, Okja è una commedia familiare piena di satira sociale e diretta con una mano formidabile

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Quando Okja arriva a circa metà della sua durata e impegna molti dei suoi personaggi, compreso il gigantesco maiale del titolo, in una corsa a perdifiato e sfondatutto in un centro commerciale accompagnata da incalzante musica balcanica, ogni maschera cade e il film rivela la sua natura di commedia satirica che fino a quel punto aveva solo lasciato intuire.

Bong Joon Ho con la sua storia di una contadina di campagna e del suo maiale gigante da cui rifiuta di separarsi e che inseguirà fino alla città per liberarlo dalla multinazionale che l’ha creato, vuole prendere in giro tutti: grandi corporation, ribelli animalisti e pubblico lobotomizzato. Tutti quelli che non sono Okja e la sua padrona.

E ci riesce. Okja è divertente e centra alcune immagini di grande efficacia (dalla “situation room”, alla macelleria, dalle fisse degli attivisti “per bene”, alle persone che scappano dal maiale in fuga ma nel farlo si scattano un selfie in corsa, fino ai dialoghi ai vertici della corporation). Tutto è da ridere e le parti più serie servono un tema e una morale semplice e diretta, animalista e naturalista. Nulla di sofisticato messo in scena con il massimo della sofisticazione e dell’abilità, scatenando umorismo alle volte solo con la composizione di un’inquadratura, altre solo con un dettaglio di movimento di un personaggio o con l’apparecchio per i denti del personaggio di Tilda Swinton.

Perché Okja può essere un film innocuo quanto si vuole, tenero e scaldacuore, con un’ultima parte più dura e cupa ma funzionale solo al gran finalone lieto, tuttavia non muove un passo dallo stile rigoroso e da quella maniera con la quale Bong Joon Ho rivede le caratteristiche dei generi a partire dai ruoli e dalle figure tipiche. La ragazza di campagna che va in città con pervicacia per affermare un diritto, reclamare qualcosa e combattere il sistema da sola, con i suoi abiti fuori moda, il suo volto paffuto e poco espressivo, le gote rosse e un’ottusa determinazione che fanno impressione, è un personaggio che tutto il mondo ha conosciuto con il cinema degli anni ‘90 di Zhang Yimou (La Storia di Qiu Jiu, Non Uno Di Meno), è una figura tradizionale della narrazione asiatica che Bong Joon Ho qui ribalta. Non l’eroina dello spirito popolare ma l’esatto opposto: un’individualista che lotta contro gli uomini a prescindere dal loro schieramento.

Continua a leggere su BadTaste