Cannes 70: Okja, la recensione
Leggero e dalla morale facile facile, Okja è una commedia familiare piena di satira sociale e diretta con una mano formidabile
Bong Joon Ho con la sua storia di una contadina di campagna e del suo maiale gigante da cui rifiuta di separarsi e che inseguirà fino alla città per liberarlo dalla multinazionale che l’ha creato, vuole prendere in giro tutti: grandi corporation, ribelli animalisti e pubblico lobotomizzato. Tutti quelli che non sono Okja e la sua padrona.
Perché Okja può essere un film innocuo quanto si vuole, tenero e scaldacuore, con un’ultima parte più dura e cupa ma funzionale solo al gran finalone lieto, tuttavia non muove un passo dallo stile rigoroso e da quella maniera con la quale Bong Joon Ho rivede le caratteristiche dei generi a partire dai ruoli e dalle figure tipiche. La ragazza di campagna che va in città con pervicacia per affermare un diritto, reclamare qualcosa e combattere il sistema da sola, con i suoi abiti fuori moda, il suo volto paffuto e poco espressivo, le gote rosse e un’ottusa determinazione che fanno impressione, è un personaggio che tutto il mondo ha conosciuto con il cinema degli anni ‘90 di Zhang Yimou (La Storia di Qiu Jiu, Non Uno Di Meno), è una figura tradizionale della narrazione asiatica che Bong Joon Ho qui ribalta. Non l’eroina dello spirito popolare ma l’esatto opposto: un’individualista che lotta contro gli uomini a prescindere dal loro schieramento.