Cannes 70: Jupiter's Moon, la recensione
Un rifugiato siriano che si scopre (forse) angelo guida un medico truffatore, Jupiter's Moon conquista con la forza visiva e quella del suo ritmo
Ai confini dell’Ungheria alcuni rifugiati della Siria cercano di entrare illegalmente in Europa quando la polizia di frontiera apre il fuoco sui loro gommoni. Gli spari sono ad altezza uomo e mietono vittime, tutti cascano morti tranne uno che anzi si solleva, vola e torna in vita rimanendone stupito per primo. È il protagonista del film che, curato da un dottore locale, verrà da questi usato come “santo”, pupazzo per fare soldi vendendo benedizioni fino a che non sarà il momento di fuggire dalla polizia che li vuole catturare se non proprio uccidere. Ma lui, per fortuna, vola ed è in grado di cambiare la gravità degli ambienti in cui è inserito, forse anche leggere il pensiero. Dicono sia un angelo.
C’è insomma il paradosso del magical negro alla base del film, il personaggio tipico della narrativa americana del buon afroamericano, dotato anche di poteri magici, che rimane però sempre ai margini, servitore anche quando potente. Qui il magical negro è un rifugiato braccato, è la vittima e non il salvatore, un uomo messo al bando da un mondo che non lo vuole per quel che è.
“Non c’è salvezza dalle ferite della storia” verrà detto ad un certo punto con l’aria delle frasi solenni in un film che solenne non vuole mai esserlo, anzi. Il meglio Jupiter's Moon lo dà con il suo svolgimento, proprio negli inseguimenti, nelle sparatorie in quella tenacia fantastica del dottore coprotagonista, antireligioso, bastardo in aria di riscatto che non molla mai, nel poliziotto incancrenito, in una corsa ripresa da videocamera attaccata al paraurti frontale.
Tutto sempre tenendo di sfondo il mondo infame di cui sopra, perché le storie che i generi del cinema ci raccontano non devono per forza avvenire in mondi di fantasia ma possono essere forti anche nel nostro, virati sul giallo ocra.