Cannes 70: Happy End, la recensione

Con un filo di ironia in più ma molta meno violenza Happy End, è una versione annacquata del cinema di Haneke, riconoscibile come un'imitazione loffia

Critico e giornalista cinematografico


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Piaccia o non piaccia il suo punto di vista cinico e disilluso sulla società, nessuno come Michael Haneke è riuscito in questi 30 anni a raccontare storie capaci di colpire lo spettatore per fargli del male davvero, lasciando delle ferite difficili da rimarginare, generando immagini di indicibile atrocità senza bisogno di ricorrere per forza alla violenza ma puntando sull’umiliazione, l’ingiustizia e il senso di sofferenza intima di protagonisti che questo regista e sceneggiatore austriaco sembra odiare e disprezzare con tutte le proprie forze.

Per questo motivo Happy End si presenta come un film di qualcuno che lo imita e non l’originale, una copia taroccata e quindi più fragile dei modelli aurei, realizzata con meno cura, maestria e senza il guizzo che lo ha reso famoso.
Anche in quest’ultimo film c’è sempre quello strano e misterioso senso della suspense che alimenta tutti i suoi film, una tensione verso la scoperta di “qualcosa”, di un dettaglio strano e incomprensibile (solitamente oscuro anche ai protagonisti). Stavolta sono i video girati con il cellulare all’inizio della storia, piccoli gioielli di crudeltà che rivelano un animo nero ma non chi lo possieda.

Per capire chi li abbia girati passiamo attraverso un film che narra di una famiglia ricchissima, magnati di qualcosa ma chiaramente inumani. A dominare è un patriarca anziano che desidera ardentemente morire senza che gli riesca o che qualcuno lo aiuti. È Trintignan, sua moglie è morta tempo prima e sua figlia Isabelle Huppert ha preso le redini della società (da questi meccanismi e relazioni si direbbe di essere di fronte ad un sequel di Amour ma in realtà poi il contesto intorno a loro è tutt’altro).

L’anziano patriarca non è il solo a voler morire, a covare un segreto o una doppia vita (di giorno e di notte, offline e online), di sicuro è quello che meno lo nasconde. A questo punto dovrebbe accadere qualcosa ma invece non è così. Haneke scambia un po’ di umorismo (ma poco eh!) per la sua consueta meschinità, condanna solo lievemente i protagonisti, non gli fa davvero male, né li risolve. Tutto naviga a vista, galleggia nelle acque del miglior cinema senza immergersi mai.

Una nota a parte per chi (ancora) si ostina a guardare il cinema italiano medio: che in un film del 75enne Haneke si debba vedere una bambina che per passare il tempo guarda uno youtuber sul mac, prima di averlo potuto mai vedere in un film italiano qualsiasi, anche commerciale (in cui solitamente giocano con le bambole se non con i giocattoli di legno), è uno smacco terribile.

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