Cannes 70: Good Time, la recensione
Una borsa con il malloppo, due fratelli rapinatori, uno preso dalla polizia l'altro in cerca di un modo di farlo evadere, Good Time non cerca altro
Dopo la rapina che arriva a pochi minuti dall’inizio del film, messa in piedi con grande goffagine da due fratelli (uno dei quali handicappato mentale), Good Time si concentra solo sul recupero, sul meccanismo base di preda e predatore. Il fratello scemo sarà catturato dalla polizia e l’altro dovrà pagare la cauzione oppure farlo evadere dall’ospedale in cui è rinchiuso a seguito delle ferite riportate nella cattura (indovinate cosa è costretto a scegliere).
Eppure questo film dei fratelli Safdie ha tutto un altro stile, lavora sui neon e sulla musica elettronica come Drive ma è innamorato della macchina a spalla, dei primi piani stretti senza nessuna voglia di comporre geometricamente le inquadrature come Refn. Stessi elementi insomma ma mix diverso.
L’impressione finale è di aver assistito ad un film decostruito, in cui gli ingredienti sono tutti chiari e riconoscibili anche se privi di amalgama per volere del cuoco. Le medesime scene che conosciamo sono qui messe in una sequenza inedita solo modificando le scelte dei personaggi o facendoli sbagliare. Si ride un po’, si rimane molto in tensione e si viene soprattutto sorpresi dal modo in cui questo spiazzamento riesce a raggiungere l’esito finale di ogni poliziesco in maniera propria. Riesce cioè a mettere lo spettatore a contatto con l’evidenza di quanto la lotta per un domani migliore passi comunque per un piano ben eseguito, quanto necessiti di un lavoro metodico e una dedizione fuori dal comune.