Cannes 70: A Gentle Creature, la recensione
Densissimo e composto con un gusto visivo di rara potenza e capacità di rimanere impresso, A Gentle Creature è un vero viaggio nell'inferno di un regime
Così quando compare il cellulare in mano ad un uomo che, al di fuori delle regole, forse potrà spiegare alla protagonista quello che le forze dell’ordine (con un certo sadismo) non le dicono, ovvero come mai non possono consegnare un bel niente a suo marito in galera, è un barlume di civiltà e una speranza di autonomia e raccolta di informazioni moderna in un mondo che pare fermo al dominio autoritario della carta. Purtroppo è una pallida illusione.
Senza arrivare alle punte di densità soffocanti dei film di Aleksei German, questo film del documentarista con il vizio della finzione Sergei Loznitsa lavora su più piani, sia visivamente (c’è sempre qualcuno nello sfondo che conta come chi è in primo piano) sia per il sonoro (la distrazione tramite rumori è una costante destabilizzante). Tutto è soffocante, afoso e irrespirabile come ci si trovasse nel mezzo della foresta amazzonica e invece siamo nei grandi spazi russi.
E mentre la protagonista, ovvero la creatura gentile e mite del titolo, sembra chiedere a tutti solo “Che devo fare?” per recapitare dei viveri al marito prigioniero, cercando indefessamente una via legale nonostante venga maltrattata da ogni istituzione e le vengano offerte diverse scappatoie illegali, Loznitsa compone dei quadri. Una volta tanto non è un modo di dire, le sue inquadrature funzionano esattamente come i quadri, in esse la luce e la composizione si parlano e intrattengono rapporti complessi, ogni volta diversi e creativi. Si tratta di un piacere incredibile quello che riesce a regalare, consentendo allo spettatore di fermarsi con calma senza essere mai annoiato da immagini che possono essere scrutate a lungo, che appassionano e intrattengono prima ancora di ciò che contengono.
A Gentle Creature infatti impressiona prima di tutto per le sue immagini, tutte costruite per durare, pensate per rimanere e non per passare. Sembra che nulla sia mai fuori posto in questi lunghi piani fissi, pieni di persone e personaggi, in cui lo sfondo davvero conta più del primo piano della creatura gentile, impassibile di fronte ad ogni assurdità che incontra.
Il caos terribile che lascia intuire immobilismo, qui è un inferno reale di post comunismo. Non si contano le volte che Loznitsa inquadra busti di Lenin, vie dedicate al comunismo e che mette in bocca alle comparse un po’ di rimpianto per i bei tempi andati. La parte politica è fortissima, come è lecito attendersi da un film su un prigioniero che viene nascosto e negato da uno stato bieco che sembra non rispondere a nessuna legge né degli uomini, né divina, ma è sempre la forma affascinante di questo film a dire le cose più memorabili.
L’ultima mezz’ora poi sceglie di ricorrere all’onirico (ma benissimo) per tirare le fila del proprio discorso, immaginando un tavolone in cui ogni singolo personaggio visto di sfuggita o in primo piano mangia assieme agli altri e pontifica. Forse l’ultimissima, durissima, impressionante e terribile scena poteva essere evitata, ma se davvero l’intento è massacrare una creatura gentile con un percorso di violenza statale in crescendo, allora sì, la violenza doveva arrivare al suo culmine senza fermarsi per blandi e pavidi limiti di decenza di fronte agli inevitabili esiti di un simile percorso (per quanto poi espressi metaforicamente).