Cannes 70: A Ciambra, la recensione

Duro quando non lo si direbbe, dolce quando ci porta a non aspettarcelo, A Ciambra si fonda su un continuo senso della sorpresa

Critico e giornalista cinematografico


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Quando A Ciambra inizia c’è un bambino di circa 6 anni (forse meno) che gioca con altri zingari come lui in un campo e nel farlo impreca, minaccia e fuma, ma fuma bene con la naturalezza di chi lo fa da molto tempo. A quel punto il film è partito da qualche minuto e il pubblico in sala ride, perché è una scena incredibile, ride anche se non c’è niente da ridere (quel bambino, è evidente, non sta recitando), ride perché è di fronte alla vera e concreta assurdità di un mondo che non è conosciuto davvero. Si tratta del mondo degli zingari, nel caso particolare di Gioia Tauro, oggetto dell’interesse mediatico, della propaganda politica e delle lamentele popolari ma mai di indagini vere e nemmeno di storie.

Al cinema abbiamo visto quelli molto finzionali (ma stupendi) di Suburra, malavitosi a modo loro, e ora A Ciambra fa un racconto pazzesco che può esistere solo lì. Cambiando etnia e provenienza ai personaggi nulla reggerebbe, così invece è credibilissimo. Non sarebbe infatti pensabile altrove che un ragazzino di meno di 13 anni lotti ad armi pari con gli adulti per essere considerato uomo, mantenendo una famiglia dopo che il fratello grande è finito in galera per furto, a sua volta rubando di tutto in tutte le maniere. Pio ruba come ha visto fare e come fanno tutti quelli intorno a lui, è la maniera in cui si vive. Ha un amico africano, rifugiato, che è più adulto e lo aiuta ma in linea di massima fa tutto da sé, ha la scaltrezza di un navigato 40enne, la bastardaggine del ladro e lo spietato cinismo del truffatore.

A Ciambra, lo rivela l’ultimissima scena su cui partono i titoli di coda, è la storia di come Pio si lasci alle spalle l’età infantile ed entri dritto in quella adulta senza passare per l’adolescenza, un racconto di formazione fantastico e al tempo stesso classico che lo metterà in condizione prima di esporre il proprio atteggiamento al pubblico e poi di essere messo in crisi dalla trama, posto di fronte ad una scelta terribile in cui nessuna ipotesi sembra giusta e che lo formerà definitivamente.
Lo stile di Carpignano non sembra per niente quello scialbo di Mediterranea ma è anzi pieno di vita, di idee e di elettricità. In più A Ciambra è un viaggione che si fa tutto d’un fiato, in cui si è sempre presi di sorpresa.

Il suo vero pregio infatti sta nel mostrare del proprio protagonista sia la forza e la concretezza che non ci si aspetterebbe mai (la capacità di trattare con gli adulti e fregarli, la mancanza di paura nel gettarsi in imprese difficilissime, l’autonomia di giudizio e di pensiero in ogni situazione), sia al tempo stesso la fragilità incredibile che sarebbe più facile attendersi ma che il film riesce a rendere inattesa. Pio, a fronte di tutta questa durezza, è claustrofobico e ha paura della velocità dei treni, ha momenti in cui necessità dell’abbraccio materno e cerca con difficoltà di tenere tutto ciò ai margini della propria vita, di vivere in quel contesto nonostante la fragilità.
Che il primo film italiano fieramente zingaro (cioè che non li guarda da fuori, condannandoli o salvandoli ma che sembra raccontato proprio da loro, con le loro idee e la maniera in cui parlano o si esprimono) sia una storia così onesta e diversa è probabilmente il miglior risultato si potesse ottenere.

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