Cannes 70: 120 Battements par Minute, la recensione

Ipercorretto ma anche teatrale e pronto a tutto per generare un po' di commozione, 120 Battements par Minute vuole scuotere nel modo più semplice: urlando

Critico e giornalista cinematografico


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Per 120 Battements par Minute l’equazione che crea l’attivismo è molto chiara: bisogno + civiltà - riconoscimento di diritti. Tutto il film è finalizzato a mostrarla.
Racconta infatti di Act Up Francia, il movimento che negli anni ‘80 lavorava di azioni e irruzioni per sensibilizzare riguardo il problema della diffusione dell’AIDS. Composto quasi unicamente da omosessuali era anche un gruppo che, più in generale, sensibilizzava sui diritti gay passando attraverso il bisogno dell’approvazione di medicinali e nuove cure.
Il film di Robin Campillo mostra il movimento da dentro, si sofferma moltissimo sulle riunioni in cui si discute cosa fare, come farlo e che regole o limiti darsi. Si ricostruiscono alcune azioni per capire se sono andate bene o male e perché, si cerca di non perdere la bussola, ci si confronta, si discute e si migliora.

C’è talmente tanto un eccesso di civiltà e “giustezza” nei personaggi di questo film da essere fastidioso.

Come già in Polisse (altro film francese ma sulle difficoltà del corpo di polizia che lavora sulla pedofilia che eccedeva in questo senso) anche qui è la voglia spasmodica di essere corretti, di non infrangere nessuna regola, di rispettare tutto e tutti oltre ogni dire a portare i personaggi al ridicolo, in maniera non diversa (se non fosse che è involontaria) dagli attivisti animalisti di Okja.
Gli attivisti del film sono dei santi dal primo all’ultimo. Non applaudono ma schioccano le dita per lasciar parlare tutti e non fare casino, non fanno resistenza alla polizia e si sdraiano pronti a farsi arrestare, partecipano tutti a tutte le discussioni, non cedono a nessun sentimento basso e quando lo fanno è perché stanno per morire.

120 Battements par Minute infatti adora andare sopra le righe, far urlare la disperazione dei malati terminali di AIDS e mettere in scena con grandi eccessi il dolore. Già la teatralità è fastidiosa al cinema, quella finalizzata a sfruttare la malattia poi ha un girone a parte tutto dedicato a sé nell’inferno dei cineasti.
Perché quando Robin Campillo fa agire personaggi imputando a loro la credenza che impressionare il pubblico serva a sensibilizzare in realtà lo sta affermando in prima persona con il suo film. 120 Battements par Minute vuole impressionare, vuole scuotere, solo non sa farlo bene, sa solo urlarlo. Che è la maniera più semplice e meno sofisticata, dunque la meno efficace.

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