[Cannes 2016] I, Daniel Blake, la recensione

Di nuovo la working class che mantiene la dignità nelle difficoltà, di nuovo un uomo di buon cuore, di nuovo Ken Loach. I, Daniel Blake è solo ripetizione

Critico e giornalista cinematografico


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Il sodalizio Ken Loach/Paul Laverty ha una sua poetica, precisa. Purtroppo però comincia anche ad avere una sua struttura, troppo precisa. I, Daniel Blake ripropone in pieno il solito svolgimento dei loro film, di fatto impoverendolo, svilendolo e annacquandone il potenziale. C'è un uomo, d'estrazione popolare ma di buona volontà, che ha una difficoltà, in questo non gli è molto utile "il sistema", anzi è proprio contro di esso che si deve battere per affermare la propria umanità e la propria dignità, in un mondo che oggi come oggi corre troppo per interessarsi dell'individuo. Ad aiutarlo compare però qualcun altro, una donna, una famiglia o un amico, nei guai come lui eppure con il supporto di una comunità di pari, oppure dei colleghi del lavoro i due riusciranno insieme ad ottenere una soddisfazione che non compenserà i torti subiti ma commuoverà il pubblico.
Tutto è finalizzato all'idea che sono gli uomini ad aiutarsi quando lo stato non c'è o non lo può fare, che ci sono e ci saranno sempre i "compagni", gli altri lavoratori, gli unici che possono comprendere, in un trionfo di pance alcoliche, pub, birre, canzonacce, tute, periferie e abiti sdruciti. Ma felici.

I, Daniel Blake, addirittura riprende anche l'espressione di autodeterminazione nel titolo che già c'era in My name is Joe.

Sembrano favole questi film di Loach, perchè sono volutamente prevedibili e tutti uguali, perchè sono fiduciose più nella propria struttura che in cosa raccontino, più nella missione (affermare la solidarietà del popolo opposta all'ingiustizia dello stato e dei padroni) che nelle singole storie. Cinema puramente didascalico in cui il festival di Cannes crede ciecamente, fideisticamente quasi, accettando qualsiasi nuova produzione. La storia d'amore migliore forse è la loro, quella tra Loach e Cannes, più forte di qualsiasi evidente inadeguatezza.

A noi toccano invece film come I, Daniel Blake, insipidi e talmente convinti dei propri prinicpi da non riuscire ad ottenere l'effetto di quelli che oggi sono i film migliori, cioè l'equilibrio ideologico, la messa in crisi di qualsiasi convinzione e la complessità di ogni situzione. Per Loach invece tutto è molto semplice, talmente tragico e in giusto da diventare semplice.

Un film da "maestro" quale Loach è considerato, era Il mio amico Eric in cui Cantona, a metà tra realtà e mitologia vivente, illustrava ad un povero postino come superare la propria crisi (forse il film più riuscito di quest'autore, l'unico che racconti davvero il mondo intellettuale della classe popolare con poesia concreta e poca retorica), ci sono una valanga di Daniel Blake che con candore vogliono impedire alle amiche di fare le escort, che costruiscono mobili in legno e si ostinano a scrivere curriculum a mano per trovare lavoro, come se fosse un merito!

Particolarmente poco condivisibile poi è la dura critica ad un sistema di welfare e sostegno come quello sfoggiato in queto film. Uno che forse solo altri 2-3 paesi nel mondo potrebbero vantare.

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