Cannes 68 - The Sea of Trees, la recensione

La nostra recensione di The Sea of Trees, il film di Gus Van Sant presentato al Festival di Cannes

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È dal 2007, ovvero da Paranoid, che Gus Van Sant non firma soggetto o sceneggiatura dei film che dirige, eppure The Sea of Trees sembra l’altra faccia di una medaglia a cui già appartiene L’amore che resta. L’accettazione del lutto, i richiami alla cultura giapponese (nel 2007 era il samurai, qui è l’ambientazione), l’idea che quando si è a terra si debba davvero perdere tutto per potere ricominciare: il cineasta statunitense sembra vivere una fase ascetica. Non c’è aldilà se non con il sacrificio.

Aokigahara è un celebre parco giapponese alle pendici del monte Fuji considerata tra i migliori luoghi dove morire. È qui che si ritrova un professore di scienze diventato da poco vedovo. Vorrebbe suicidarsi, ma prima di compiere l’estremo gesto incontra un uomo giapponese in cerca di aiuto. Vaga moribondo da giorni, si è perso. Inizia così un avventura che porterà la coppia a confidarsi reciprocamente le ragioni che li hanno portati fin lì. Si ascoltano, ma non sono soli, c’è anche la foresta a raccogliere le loro confessioni…

Gus Van Sant ha due anime: una è quella del regista anticonvenzionale che firma pellicole d’autore come Elephant e Milk, l’altra è quella più convenzionale che, tra alti e bassi, porta sul grande schermo storie come Will Hunting, Scoprendo Forrestrer e Promised Land. Sea of trees appartiene a questto secondo gruppo di lavori. Ci si commuove quando c’è da commuoversi e ci si appassiona all’avventura (e alle scene d’azione che la sostengono) eppure tutto ha il sapore del già visto, anche le rivelazioni finali. Nessun guizzo ovvero qualcosa che riesca a giustificare la scelta di un regista così affermato di volere raccontare proprio questa storia invece che un’altra. Il lirismo a cui si ispira è solo nelle intenzioni, non nelle immagini. Non basta inuadrare il vento che muove le foglie per apparire poetico e non ci si può affidare solo agli attori. McConaughey prova a raccontare il dolore ricorrendo a tutta la fragilità che il suo corpo gli consente, ma si ricorre comunque all’uso continuo dei flashback per credibitlià a quella sofferenza che dovrebbe trainare il senso stesso della vicenda. Se L’amore che resta era un progetto low budget girato con giovani attori, un approccio da “piccolo cinema” che si giustificava, e forse anche oltre i propri meriti, proprio perché apparentemente non ambizioso, qui ci sono più di 25 milioni di dollari con un cast che vanta il fresco premio Oscar Matthew McConaughey due stelle del jet set già in passato nominate alla statuetta come Naomi Watts e Ken Watanabe.

A Cannes, alla proiezione per la stampa, è stato sonoramente fischiato. Forse è esagerato, qualche momento di ottimo cinema c’è anche qui (come il racconto davanti al falò), ma da Van Sant è giusto aspettarsi di più.

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