Cannes 68 - Saul Fia, la recensione
Dedito alla morte invece che a celebrare la vita, per nulla arrendevole o dolce, Saul Fia finalmente ribalta i peggiori clichè del cinema sull'olocausto
Saul Fia è tutto girato in primo piano lungo sostanziosi piani squenza, si muove con il suo Saul inquadrandolo strettissimo sul volto e tenendo quel poco che si vede di sfondo fuori fuoco. La soluzione è originale e audace, soprattutto per come nega tutto quello che altrove è ricostruito alla ricerca di un verismo maniacale: l'olocausto.
Saul è infatti un ebreo in un campo di concentramento, uno di quelli deputati ad aiutare i nazisti nello sterminio, uno di quelli che spingono gli altri ebrei nei forni, nelle fosse e nelle "docce" e poi ne ammassano i cadaveri. La sua faccia è sempre impassibile ma intorno a lui ci sono evidenti schizzi d'inferno vero, espressionista, gridato e mostruoso. Nulla è ripulito, anzi molto è enfatizzato. In tutto questo Saul ha deciso contro ogni logica e buon senso di seppellire e onorare un ragazzo morto che identifica come suo figlio. Deve trovare un rabbino, salvarlo, seppellire di nascosto il cadavere per poi far recitare le preghiere del caso e tutto nel giorno più complicato: quello in cui è stata organizzata una ribellione contro i nazisti.
Il cinema sull'olocausto è uno dei meno interessanti di sempre, tranne sparutissime eccezioni lodevoli ripete se stesso in continuazione, perpetuando i medesimi luoghi comuni che levano senso anche a ciò che sappiamo averne. Si è ripetuto così tanto, con così poche idee e un tale timore di deviare dal solito per creare qualcosa di audace, che alla fine i suoi topoi hanno perso la potenza che il racconto invece imporrebbe, fino a diventare una sequela di favolette oscure da parte di registi piegati al terrore del giudizio del pubblico. Ogni film in più sull'olocausto che viene girato conferma come il genere sia terra di conquista del peggior buonismo che edulcora anche il contesto peggiore per renderlo accettabile da un pubblico facilmente impressionabile, opere tutte abbai e nessun morso che dipingono l'atrocità con colori sfumati e la bilanciano con tanto amore.
Gli ebrei prigionieri del film di Lazslo Nemes sono persone terribili, all'ultimo stadio della vita e pronte ad ogni bassezza, privati dell'umanità da quel che stanno vivendo e ormai adagiati alla morte che li circonda. Il protagonista è il più folle di tutti, con gli occhi pieni di vuoto e la fissità nello sguardo decide di fare la cosa meno sensata per salvare la propria anima da tutta la morte inflitta e per tutto ciò è pronto a condannare a morte i suoi compagni.
In questo film bellissimo finalmente nulla ha senso. Vicinissima al confine con il morire continuo degli esseri umani ogni azione diventa follia: folle la ribellione, folle voler seppellire una persona sola, folle chi mente per salvarsi e ovviamente folli i nazisti. Saul forse è destinato all'inferno ma di sicuro ci vive già, là dove tutto è in decadimento ed esiste solo il momento della morte (non il funerale, non la minaccia ma l'atto del morire ripetuto di continuo come una pena dantesca).
Il nazismo come la tortura dell'eterno assistere al ripetersi dell'atto di morire.