Cannes 68 - Mountains may depart, la recensione
Lungo tre decenni i protagonisti di Mountains may depart interpretano diverse anime della Cina ma con una certa meccanicità
Jia Zhang-ke non si nega toni da melò come le soluzioni della grande narrativa popolare, il ritmo dell'epica di una nazione per raccontare la memoria di una famiglia spezzata e il rimpianto di un'altra Cina, il ricordo, il cambiamento e le diverse maniere di venirci a patti. Le ambizioni sono alte ma la sofisticazione bassa. Mountains may depart parla un linguaggio molto elementare, sfronda lo stile di Jia Zhang-ke per adattarlo ad una forma meno autoriale, senza compensare con il racconto. Nella storia ci sono alcune corrispondenze terra terra (il figlio della nuova Cina a letto con la custode della tradizione, l'osservatore dotato di lancia tradizionale che compare in ogni epoca, il denaro che non esiste della finanza contrapposto alla materialità del carbone), tutte indirizzate verso il confronto tra vecchio e nuovo nel quale come sempre vince la tradizione.
L'ovest inteso come mondo occidentale è un finto eldorado da canzoncina, le promesse da realizzarsi in Australia (che paradossalmente sta ad Est dalla Cina ma aderisce al blocco occidentale del mondo) e le ricchezze che vengono dalla finanza, lasciano l'amaro in bocca, per Mountains may depart tutto quel che conta davvero si perde nel ricordo.
Per raccontare tutto ciò Jia Zhang-ke sceglie formati diversi (Xavier Dolan già fa scuola), scandisce le ere con una certa meccanicità e sembra non proprio a suo agio in una dimensione più narrativa di cinema. Lontano dalla rarefazione a cui è più abituato, lontano da uno stile di racconto in cui i fatti contano meno dei personaggi e dell'atmosfera e invece vicino ad un genere (quello popolare/melodrammatico) in cui l'intreccio e l'azione sono fondamentali, si avverte una certa fatica, non tutto è davvero fluido e specie nella lunga ultima parte il film perde di mordente in maniera non tollerabile.