Cannes 68 - Louisiana, la recensione

Immerso completamente nella realtà che racconta, così da non poter più distinguere tra reale e finzionale, Louisiana è un lavoro di nuovo mostruoso

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Questa volta è la Louisiana del titolo, e non più il Texas, il luogo in cui si muove con circospezione Roberto Minervini, documentarista al di là di ogni definizione che da solo sta ridefinendo il senso del termine "documentario", virandolo verso lidi esteticamente mai toccati e dotati d'un senso della dedizione herzoghiano.

Il suo stile unico prevede l'accumulo di centinaia di ore di girato, un girato completamente immerso nelle realtà che documenta al punto di permettersi di riprendere cose che chiunque altro non vorrebbe mostrare e qualunque soggetto non farebbe di fronte alla videocamera, e seguìto da un lavoro di editing estenuante che tagli tutto ciò che effettivamente sembra un documentario per consegnare nelle sale un film che appare di finzione. Solo che non lo è.
Arrivato alla perfetta mimesi tra vero e fasullo con Stop the pounding heart, un vero punto di non ritorno per il suo genere e per tanto cinema del reale, il documentario fondamentale degli ultimi anni, adesso Louisiana espande quell'idea.

Le comunità in questione stavolta è quella dei boschi dello stato del titolo, tra reduci che continuano a fare una vita da soldati, spaventati da una possibile legge marziale imposta dall'ONU, e una famiglia di drogati e spacciatori di metanfetamine. Tutti sembrano all'ultimo stadio, tutti ostentano forza con il solo risultato di comunicare fragilità e Minervini ottiene da loro il massimo, li vediamo esprimere sentimenti anche controvoglia, anche involontariamente, attraverso il linguaggio che siamo abituati a comprendere dai film, attraverso prima scene toccanti in un bar e dopo attraverso il sesso in casa, attraverso i risvegli nelle radure, le camminate nudi completamente fatti e poi al mattino la ronda per la consegna della droga.

C'è un'umanità così tangibile nei film di Minervini che anche se Louisiana non riesce a replicare l'epica familiare e la lotta per l'affermazione di sè di Stop the pounding heart (film sfuggito al controllo del regista stesso che non avrebbe voluto far emergere quel che è emerso), esprime comunque un cinema talmente poco inquadrabile da sorprendere sempre. L'incertezza totale generata dallo spettatore da personaggi così reali da non poter essere attori e battute così pessime da non poter essere battute, stimola un'adesione nuova al flusso del racconto. Purtroppo questo film non vanta anche un intreccio interno come il precedente ma cataloga e mette in fila la descrizione dei suoi soggetti con una narrazione che è più formale che contenutistica.
Tuttavia, totalmente destabilizzati, si rimane in contemplazione della maniera in cui quest'italiano trapiantato da un decennio e passa in America riesce ad inquadrare il mondo senza nessuna organizzazione, solo puntando e affidandosi all'istinto. Si rimane distrutti dall'audacia con la quale si spinge oltre quello che consideravamo "mostrabile" sostenuto da un'etica e una morale di ferro, con un rigore e una decisione che impressionano.

Continua a leggere su BadTaste