Cannes 68 - Lobster, la recensione
L'indecifrabile cinema di Lanthimos con Lobster conferma di saper creare le trame più interessanti possibili su svolgimenti che lasciano perplessi
Di fronte ai film di Yorgos Lanthimos si prova uno smarrimento quasi unico dato dalla sovrapposizione di un'allegoria abbastanza chiara e diretta, spesso molto originale e pregnante (una famiglia che cresce i figli lontano da tutto, in una bolla in cui li protegge da ciò che è aspro per Dogtooth; una serie di persone che impersonano i defunti per il conforto dei parenti per Alps; un gruppo di single over40 costretti a trovare un partner altrimenti verranno trasformati in animali per Lobster) sopra uno svolgimento disumano, grottesco e che sembra non voler mai mettere a frutto l'assunto di partenza. I film di Lanthimos sembrano non voler programmaticamente dire niente, nonostante partano da spunti interessanti e coinvolgenti, sembrano proporsi di girare a vuoto su temi invece affascinanti.
"Lobster rimugina per tutto il tempo su quadretti grotteschi spesso molto divertenti ma più che altro sterilmente freddi"Già in queste poche righe di trama c'è tutto quello che sarebbe bello farsi raccontare e di cui sarebbe opportuno parlare (mercificazione del desiderio da parte di intermediari dell'accoppiamento, il condizionamento sociale, l'esigenza di essere come tutti si aspettano che si sia, la ribellione come forma futile di creazione di un altro sistema coercitivo e via dicendo) riguardo un argomento quasi vergine come l'inaccettabilità della solitudine (e quindi della devianza dall'usuale) dopo una certa età. Eppure Lobster rimugina per tutto il tempo su quadretti grotteschi spesso molto divertenti ma più che altro sterilmente freddi e programmaticamente distaccati da tutto, aperti a centinaia di possibili metafore nessuna delle quali realmente perseguita ma solo accennata per soddisfazione dello spettatore amante della dietrologia.
È chiaro che a Lanthimos la società non piace e sembra quasi di intuire le sue ragioni, specie quando sfocia in eccessi di violenza che esplodono subitanei, senza preavviso e senza che i personaggi ne rimangano influenzati. La violenza efferata e ingiusta come forma pienamente accettata da una società o da un nucleo sociale che la ritiene (evidentemente) giusta o necessaria, è una cifra di tutti i suoi film che in Lobster diventa anche auto-inflitta. Tutto a suo modo fantastico, tutto pienamente in grado di raccontare davvero le molte maniere in cui ciò che accettiamo delle pratiche sociali nasconde in realtà un'orrenda violenza (che in realtà è psicologica ma che il cinema trasforma in fisica) contro chi non si conforma.
Eppure la sensazione che tutto il meglio del film sia nella testa di chi guarda più che sullo schermo rimane forte, il sospetto che a fare il lavoro di costruzione di senso sia molto più lo spettatore deciso a rimanere affascinato da tutti questi spunti che il cineasta è quasi ineludibile.