Cannes 68 - La loi du marché, la recensione

Di nuovo è il cinema francofono ad affrontare dal punto di vista più maturo e attuale il tema del lavoro. La loi du marché è un'odissea

Critico e giornalista cinematografico


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Pensare, scrivere e girare oggi un film che tratti del lavoro nella maniera più basilare, elementare ma anche attuale è molto difficile. Realtà frammentata per eccellenza in molte situazioni e problematiche differenti, il lavoro viene affrontato al meglio quando astratto, fuoricampo. Lo facevano benissimo i Dardenne in 2 giorni, una notte e ora Stephan Brizé sembra inseguire quella traccia. La legge del mercato del titolo è quella subìta dal protagonista, senza lavoro da ormai 20 mesi ma determinato a trovarne un altro. Gira di colloquio in colloquio Thierry (interpretato da un gigantesco Vincent Lindon), di consulenza in consulenza, ha anche preso parte ad un corso di formazione che non gli è servito a molto, teme di stare perdendo tempo e passa giorni interi dietro a quella che sembra una catena burocratica più che lavorativa.

È chiaro subito che Brizé si appassiona alla maniera in cui trovare lavoro diventi un'attività alienante, si lega ai gangli burocratici e infernali delle agenzie di lavoro interinale, delle agenzie di collocamento e via dicendo. Le frasi fatte e gli slogan che vengono di continuo ripetuti al protagonista, privi di significato, sono in questo senso una delle trovate migliori.
In pieno stile Dardenne poi, dopo aver penato ed espiato colpe che in realtà non ha (ma che sembrano inflittegli dagli strati più alti della società) Thierry, protagonista con figlio handicappato a carico, troverà un'occupazione che invece che risolvere tutto metterà a dura prova la sua ritrovata maturità di sguardo sul mondo del lavoro: security di un supermercato, addetto al controllo dei clienti e dei dipendenti. In caso ne prendesse qualcuno a rubare, c'è il licenziamento. Dopo tanta ricerca tocca a lui mettere altri nella sua precedente condizione.

C'è un oceano di parole, assurdità, terminologie, riti, regole e tecniche che in La loi du marché sottendono la ricerca del lavoro, un inferno grottesco di prove e passaggi, come se l'avventura di trovare un'occupazione alimentasse altri lavori in una catena interminabile. La macchina del mercato sembra un sistema stritolante, un ordine quasi divino o religioso più grande dei singoli uomini che lo mettono in pratica. Tutti gli interlocutori di Thierry, nella loro incapacità di comprendere e dominare i meccanismi, appaiono minuscole formiche di un sistema gigante.
In questo film tutto interni, inquadrature strette e piani d'ascolto del protagonista ogni azoine appare agita da altrove, tutti sono vittime di un superiore, di ordini da eseguire, di regole da impartire senza averle comprese.
Per questo La loi du marché pur senza brillare di una luce sfavillante è un vero e autentico film sul lavoro. Perchè mostra come questo, sfuggito ai singoli, diventa un sistema più grande che ti accetta o ti rifiuta a cui conformarsi pena l'emarginazione. Con trovata visiva calzante poi è mostrato sempre come un susseguirsi di prigioni fatte di neon e muri bianchi.

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