[Cannes 66] La Vie d'Adele, la recensione
Dotato delle più straordinarie qualità della vita quotidiana, il nuovo film di Kechiche ha la rara capacità di raccontare cosa voglia dire essere umani...
Tutto viene da una storia a fumetti dal medesimo titolo (di Julie Maroh), da cui Kechiche attinge a grandi linee modificando molto e adattando alle sue intenzioni, il racconto della scoperta dell'amore omosessuale da parte di una ragazza di 16 anni.
Prendere però il nuovo film del regista tunisino come un'opera sull'omosessualità sarebbe la cosa più cretina in assoluto da fare, proprio perchè la magia di questo film che appare come il più riuscito dell'autore, è di arrivare ad uno zenith espressivo in cui i sentimenti e l'umanità delle persone si manifestano sullo schermo come se non orchestrati da una volontà superiore ma trasudati dalla vita vera.
Kechiche riesce a raggiungere una trasparenza mostruosa, che solo le grandi serie tv americane moderne, in decine di episodi, possono sfiorare, quel coinvolgimento nella banalità del quotidiano come ci trovassimo di fronte al racconto di un amico, quella partecipazione nella vicenda sentimentale di un'altra persona come se ne avessi seguito tutti gli stadi.
Nelle lunghissime scene di sesso (che lavorano di fotografia per evitare di scadere in pornografia ma non tagliano nulla), nel contatto tra i corpi e come questo è raccontato da rumori e inquadrature (sempre vicine) e nella straordinaria titubanza di Adele (sia ad inizio storia che verso la fine, quando si lascia scappare ciò che pensa per la disperazione), si nasconde un'abilità filmica sconosciuta ai precedenti film di Kechiche, il vero trucco di un film tra i più coinvolgenti dell'anno.