[Cannes 66] The Immigrant, la recensione

Attesissimo, The Immigrant di James Gray delude con una storia nelle sue corde ma che rivela la propria bontà solo nel finale...

Critico e giornalista cinematografico


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Diventato noto presso il grande pubblico per film polizieschi, molto duri ma dal ventre molle (basta pensare a come finisce I padroni della notte) James Gray è in realtà altro, un cineasta raffinato e intimista, amante del cinema di scavo personale e solo superficialmente legato al crimine.

Infatti il crimine in The immigrant sta solo sulla superficie, nella storia di una donna arrivata in America negli anni '20 e costretta alla prostituzione per liberare la sorella.

Non a caso, se in superficie sembra Marion Cotillard la vera protagonista dell'intreccio, più il film procede più è evidente come in realtà sia Joaquin Phoenix, il pappone che va ad Ellis Island a rifornirsi di ragazze cercando tra quelle con problemi d'immigrazione, la vera vittima. E' un ribaltamento molto forte quello di Gray, che nega ad un melodramma la sua protagonista tipica (la donna) per andare a raccontare qualcosa di più complesso, la storia di un uomo che muta per amore, un uomo non necessariamente buono o positivo ma che perde la testa. E a differenza del cinema noir non perde la testa diventando un criminale ma diventando una persona migliore.

Purtroppo però questo percorso convince solo nell'ultima parte, quando il film tira le fila del proprio intreccio e molto meno in tutta la prima parte, quando sarebbe Marion Cotillard a dover tenere in piedi la storia, ma non riesce mai ad essere realmente convincente, relegata com'è ad una continua ripetizione della propria dedizione verso la sorella.

E' ammirabile tuttavia la maniera in cui, se si considera tutta la filmografia del regista, Gray stia portando avanti un discorso sotterraneo sulla famiglia, la gabbia da cui nessuno può scappare, la zavorra che impedisce una vita piena.

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