[Cannes 66] The Congress, la recensione

L'apertura della Quinzaine è un grande film di fantascienza a metà tra cinema dal vero e animazione con un delirio unico. Grande conferma di Folman dopo Waltzer con Bashir...

Critico e giornalista cinematografico


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A cinque anni di distanza da Waltzer con Bashir il nuovo film di Ari Folman gode di un budget evidentemente maggiore ma non perde in creatività. Se il suo lavoro precedente infatti usava l'animazione per realizzare un documentario, questo la fonde con il live action per dar vita ad uno straniamento fantascientifico.

La storia è di Robin Wright che interpreta una finta se stessa, ex attrice di successo a cui il megastudio Miramount (chissà a quali si sono ispirati...) rinfaccia di aver fatto tutte le scelte peggiori, dopo La storia fantastica e Forrest Gump. Così, sfruttando il suo non aver nulla da perdere le offrono di essere una delle prime attrici a cedere tutti i diritti per la propria digitalizzazione. Lo studio registra ogni centimetro del suo corpo e ogni possibile espressione per poi usarli a proprio piacimento in qualsiasi produzione a patto che lei non reciti mai più. Venti anni dopo la firma del contratto il futuro è dominato dalla Miramount che oltre ad un nuovo tipo di film ha portato avanti un nuovo tipo di droga chimica: chi la inala percepisce la realtà come fosse un cartone animato, dunque ognuno può assumere l'aspetto che vuole. Al congresso del futuro, cui una Robin Wright invecchiata è chiamata a partecipare, un nuovo annuncio scatenerà il delirio.

The congress è un film che inizia dal vero, con attori in carne ed ossa, e poi quando salta 20 anni nel futuro segue la protagonista in un viaggio nella realtà animata che è un unico lungo trip lisergico, fatto di paradossi, citazioni e momenti incredibimente significativi, nei quali come già nel suo film precedente Ari Folman riesce lentamente a trasfigurare la realtà disegnata e renderla sogno, piegando gli elementi e la percezione. Nel finale infine si tornerà al cinema dal vero con uno stacco magistrale.

E proprio questo doppio salto, da reale ad animato e poi di nuovo a reale (ma a questo punto siamo deceni nel futuro rispetto a quando abbiamo lasciato la realtà) è una delle trovate più forti di un film che finge di parlare di Hollywood e della smaterializzazione degli attori per andare a parare invece più sul rapporto che la modernità intrattiene con il passato, concepito più che altro come un simulacro continuamente evocato, come gli umani che nella loro forma animata assumono sembianze dei grandi del passato nella versione iconica (John Wayne non in borghese ma vestito da cowboy).

In questa storia di fantascienza dunque quel che preoccupa Folman è la costante rimozione e modifica di passato e presente, che in certi casi prende la forma dell'ossessione per la bellezza e la gioventù, ma è anche una dimensione di quella pratica di deumanizzazione che è il cuore di ogni distopia. L'uomo che distrugge il proprio futuro sacrificando ciò che conta per soddisfare pulsioni elementari.

È curioso che per raccontare tutto ciò abbia scelto di lavorare sul metatesto in questo modo (a partire dal racconto The futurological congress), introducendo elementi finto realistici come la protagonista che interpreta se stessa e rielabora le pessime scelte della propria carriera, tuttavia erano anni che il cinema occidentale non riusciva ad elevarsi al livello di quello orientale quanto a capacità di saturare il quadro visivo con immagini traboccanti di invenzioni e gusto artistico.

Una volta tanto la storia non colpisce a livello logico, nè è semplice seguirme ogni passaggio, ma cerca di colpire con la forza di alcune trovate spiazzanti. I figli che non si trovano, gli aquiloni piazzati ovunque, l'impossibilità di capire fino a che punto sia reale quello che accade, il mutamento del concetto di identità, tutti temi noti al cinema e alla letteratura sul futuro che Ari Folman tratta in modi che nessuno prima di lui aveva tentato.

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