[Cannes 66] Bling Ring, la recensione

Il nuovo film di Sofia Coppola è forse il suo migliore, il più deciso e originale. Rinnega ogni intreccio narrativo canonico per raccontare l'umanità a partire da uomini e donne assurdi...

Critico e giornalista cinematografico


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Già sulla carta la storia, vera, di un gruppo di ragazze di ottime famiglie losangeline che entrano nelle case delle star quando sanno che queste sono in altre città per rubare oggetti di moda, sembra un soggetto pronto per Sofia Coppola, ma lo stupore vero è quanto la regista sia riuscita a tramutare un fatto di cronaca in un film, senza cedere un passo dal proprio stile (che poco ha di narrativo) e trovando la vera chiave di lettura di tutta la faccenda.

Partendo infatti dalle interviste ai protagonisti la Coppola costruisce delle psicologie (forse aderenti alla realtà delle cose, forse no, non importa più) e imbastisce una storia in cui emerge non tanto il ritratto desolante di ragazze totalmente vittime della moda e di stili di vita al di sopra del loro già alto tenore, quanto un’idea fragile e toccante di amicizia e una ricerca d’affetto confusa e tenera, tipica dell’età in questione ma anche esasperata dal contesto.

Sofia Coppola alterna la storia, alla ricostruzione delle interviste ai protagonisti fatte dalla giornalista dal cui pezzo tutto è partito, alle immagini di repertorio delle star derubate e delle notizie ai telegiornali.

A sorpresa però la narrazione è lasciata alle suddette immagini di repertorio, mentre il materiale girato per il film procede di “quadro” in “quadro” senza che ci sia un intreccio, senza che i personaggi siano presi in una trama. E’ solo un’escalation di furti comandata da Rebecca ed eseguita dagli altri a diversi livelli di partecipazione e mania compulsiva.

Ovvero quel che accade è che la parte di repertorio del film è quella che svolge la funzione “fictional” di intrecciare gli eventi, mentre quella di finzione cerca di documentare le persone dietro tutto questo, o meglio la visione che Sofia Coppola ha di quest’ambiente e di quel tipo di relazioni personali che sono anche relazioni sociali, traslato attraverso questi personaggi reali.
Sembra insomma che in ogni momento la regista dica: “Lo so io che gli passa per la testa a questa gente, perché agiscono così, in base a quale codice e con quali aspirazioni”.

Una particolare fascinazione sembra però provarla per Nicki, il personaggio di Emma Watson, il più complesso, divertente e stratificato, il più feroce e assurdo, per cui paradossalmente il più vero. E questo soprattutto grazie ad Emma Watson, bravissima a rendere una gamma di espressioni calibrate e significative con una misura impressionante.

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