[Cannes 66] All is Lost, la recensione
Senza mai cercare l'epica avventurosa o la statura eroica, Chandor e Redford animano un film tutto montaggio e serietà sull'uomo e gli elementi...
La storia è presto detta: c'è un uomo che si sveglia nella sua barca a vela in mezzo all'oceano indiano e scopre un buco bello grosso nello scafo provocato dalla collisione (durante il suo sonno) con un container galleggiante, probabilmente caduto da una nave cargo. Dal buco entra acqua ma tappare la falla ben presto diventerà l'ultimo dei suoi problemi.
All is lost a partire dal titolo racconta la forza con la quale ci si aggrappa ad ogni nuovo tentativo anche quando tutto sembra perduto (e la chiave del film è proprio che quando tutto sembra perduto la situazione peggiora).
Ed è cinematograficamente importante che al centro di questa lotta contro gli elementi ci sia Jeremiah Johnson, cioè l'attore che decenni prima aveva dato vita ad uno dei personaggi più importanti in un'ipotetica storia del cinema degli uomini immersi nella natura.
Luogo comune vuole che fare un intero film senza parlare sia una grande prova d'attore. In realtà non è così, è una semplificazione, specie nel caso di film come All is lost in cui il personaggio più che provare struggimenti passa tutto il tempo indaffarato a "fare cose", il che non richiede una particolare espressività o lavoro sui movimenti.
Per questo la vera grande statura di Redford non sta nel mutismo ma nella maniera nella quale solo ogni tanto e solo per pochi secondi riesce a dare al pubblico l'illusione di tradire un sentimento. Quando si è soli non si fanno facce, non si parla, non si compiono gesti clamorosi e ogni espressione rivelatrice è inconscia, un riflesso involontario. La grandezza di Redford è di rimanere concentrato per raccontare un uomo serio, preparato, determinato ma allentare la presa sulla sua determinazione solo ogni tanto, svelando così con efficacia anche la profondità di una disperazione che probabilmente egli stesso non vuole nascondersi.