[Cannes 2016] The Handsmaid, la recensione
In una storia d'amore in costume irrompe una violenza nascosta, The Handsmaid è come se scoperchiasse quello che tutti i film simili a lui nascondono
Fa ridere definire un heist movie questo nuovo film di Park Chan Wook che racconta la storia di un finto Conte coreano che ha l'obiettivo di sedurre una nobildonna giapponese, sposarla e levarle i soldi. Il Conte per riuscirci si associa ad una popolana bisognosa di soldi che fa assumere come dama di compagnia della sua vittima, così da avere un accesso privilegiato al suo mondo intimo. Le cose non andranno come preventivato (o forse si) e proprio i tre tempi della storia mostrano i mille gangli di una trama di inganni.
La trama dice heist ma in realtà Park Chan Wook non vuole divertirsi a raccontare l’intreccio. Certo ci sono tre tempi di durate variabili nel film (sempre più corti), tre punti di vista differenti sulla trama ma a parte questo, il cuore sta in quello che la truffa scatena. Mascherato da Takashi Miike, Park Chan Wook utilizza lo schema dell'infiltrazione in una famiglia altrui per farci scoprire il piccolo mondo sadico di un signore giapponese appassionato di torture e pratiche sessuali estreme, svela le scene di sesso a poco a poco, passando da un pudore estremo ad una sfacciataggine che ben si abbina con le rivelazioni della trama, infine chiude con grandissima efferatezza, con una punizione corporale e morale ai personaggi più abietti.
Nei film di questo regista che dirige con il rigore di un ingegnere, c’è sempre l’idea che la violenza sia prima nella testa e poi negli atti, che ci sia una contrasto tra quello che pensiamo o ci raccontiamo o prevediamo riguardo al vivere violento e poi il farlo davvero. In questo intreccio che a sorpresa (ma non troppo) finirà per svelare un mondo di sadismo, sembra di vedere la parte nascosta di tutti gli altri film del suo genere. Come se ogni melò potesse nascondere uno scantinato di attrezzi di tortura, libri sul sadismo e rituali durissimi. Come se tutto questo amore per il dolore fosse connaturato in quel genere, solo che gli altri non hanno il coraggio di mostrarlo.
Ogni storia che guardiamo al cinema, lo voglia o no il film, tratta dell'importanza dell'atto del guardare, perché è ciò che gli spettatori fanno. Alcuni film ne sono più consci di altri e The Handsmaid, anche se privo dell'eccitazione psicopatica di Takashi Miike, prova un piacere evidente a guardare e far guardare sia il godimento che il dolore ma lo fa con un rigore estremo che se non può soddisfare tutti è anche evidente che merita l'ammirazione più devota.
NB: Si intuisce che l'uso delle lingue costituisca un livello ulteriore di lettura degli eventi. La maniera in cui si passa da coreano a giapponese o in cui i personaggi dimostrano di padroneggiare prima l'uno poi l'altro in maniere differenti sembra contare molto. Questo purtroppo si perde sia nella versione doppiata che in quella originale (a meno di non conoscere una delle due lingue).