[Cannes 2016] Rester Vertical, la recensione
Vago e pieno di sè, Rester Vertical tenta la strada del grand guignol ma annaspa troppo a lungo senza sfruttare i suoi spunti migliori
Rifiutando l'approccio diretto e senza fronzoli di Lo sconosciuto del lago per preferirgli uno molto più arioso ma meno concreto, Guiraudie si perde quasi subito, quando individua nella storia tra il protagonista e la ragazza che lavora come pastore un centro emotivo e lo perde perché desideroso di portare il film da altre parti. Proprio mentre lo spettatore desidera saperne di più di una storia, desidera tornare a guardare cosa accada tra quei due esseri umani così strani, il film va altrove, e non in luoghi più confortanti o anche solo egualmente interessanti. Difficile pensare a qualcosa di più fastidioso.
Accade così che tutto quel che il film accumula invece di metterlo a frutto lo disperde, e non c'è grottesco o risata improvvisa che lo salvi perché ogni momento sembra slegato dal precedente.
Il lungo portarsi appresso un neonato, una responsabilità che fa il paio con il senso di responsabilità verso chi dovrebbe fare il film, rimangono espedienti che non vanno da nessuna parte. Anche tutto il finale con i lupi, che poteva essere realmente un momento forte, uno in cui la creatura evocata per tutto il film si manifesta, in cui l'umano incontra l'animale (quante volte questo tipo di incontri sono stati memorabili in un film?), ha invece il sapore dell'occasione sprecata.
Il risultato senza ciò che gli dà un senso.