[Cannes 2016] Rester Vertical, la recensione

Vago e pieno di sè, Rester Vertical tenta la strada del grand guignol ma annaspa troppo a lungo senza sfruttare i suoi spunti migliori

Critico e giornalista cinematografico


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Questa volta c'è un filo di grand guignol nel nuovo film del regista di Lo sconosciuto del lago, un filo di risata assurda nella storia di un cineasta in fuga che trova riparo in campagna e si innamora di una donna che fa il pastore. Storia di esseri umani in attesa o nel timore dell'arrivo dei lupi a mangiare le loro pecore ma anche di paternità e amori omosessuali sbocciati nei casali campagnoli. Rester Vertical trova il suo titolo dal finale del film in cui si sostiene che per non farsi attaccare da un branco di lupi bisogna rimanere verticali, tenere la schiena dritta, non mostrarsi deboli, cercare di mettergli paura. Metafora della sopravvivenza umana? Allegoria della difficoltà di coltivare rapporti? Quel che volete, il cinema di Alain Guiraudie non da oggi è così vago e allusivo da consentire qualsiasi lettura, ma anche così generico da non riuscire mai a mettere in scena un po' di sincerità sentimentale, benché i sentimenti rimangano il suo interesse principale.

Rifiutando l'approccio diretto e senza fronzoli di Lo sconosciuto del lago per preferirgli uno molto più arioso ma meno concreto, Guiraudie si perde quasi subito, quando individua nella storia tra il protagonista e la ragazza che lavora come pastore un centro emotivo e lo perde perché desideroso di portare il film da altre parti. Proprio mentre lo spettatore desidera saperne di più di una storia, desidera tornare a guardare cosa accada tra quei due esseri umani così strani, il film va altrove, e non in luoghi più confortanti o anche solo egualmente interessanti. Difficile pensare a qualcosa di più fastidioso.
Accade così che tutto quel che il film accumula invece di metterlo a frutto lo disperde, e non c'è grottesco o risata improvvisa che lo salvi perché ogni momento sembra slegato dal precedente.

Il lungo portarsi appresso un neonato, una responsabilità che fa il paio con il senso di responsabilità verso chi dovrebbe fare il film, rimangono espedienti che non vanno da nessuna parte. Anche tutto il finale con i lupi, che poteva essere realmente un momento forte, uno in cui la creatura evocata per tutto il film si manifesta, in cui l'umano incontra l'animale (quante volte questo tipo di incontri sono stati memorabili in un film?), ha invece il sapore dell'occasione sprecata.

Come già Lo sconosciuto del lago anche in questo caso la maniera in cui Guiraudie racconta la sua storia sembra seguire i dettami del cinema d'autore senza averne compreso realmente ragioni e meccanismi, sembra cercare il minimalismo e la semplicità, abbinati ad una certa brutalità di montaggio, senza saperli effettivamente indirizzare ad un miglioramento della narrazione.

Il risultato senza ciò che gli dà un senso.

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