[Cannes 2016] Poesia Sin Fin, la recensione
Autoincensatorio e poetico ma anche sincero, onesto e in certi punti diretto come solo Fellini ha fatto prima di lui. Poesia Sin Fin è di nuovo Jodorowsky
Sarebbe forse inadeguato calare su tutto Poesia Sin Fin il medesimo giudizio dato ai suoi attimi più riusciti, il film di Jodorowsky infatti ha diverse lungaggini, non gestisce sempre al meglio il ritmo interno della narrazione e alle volte si perde. Tuttavia, sebbene possa sembrare una bestemmia, c'è in questi ultimi due film di Jodorowsky una capacità sentimentale e (è abusato dirlo) "poetica" unica e sconosciuta ai suoi esordi più noti e celebrati. Ma come si può far finta di niente di fronte ad alcune immagini che violentano lo spettatore, ad alcune allegorie così dirette, efficaci e potenti da cogliere totalmente impreparati? Il giovane Jodorowsky costretto a suonare il violino, benché voglia fare altro, vive quell'obbligo come una castrazione e trasporta lo strumento in una custodia che sembra una bara nera, conosce una donna dominatrice eppure vergine che letteralmente quando passeggiano insieme non lo tiene per mano ma per i genitali, desidera così fortemente essere un poeta da battersi con il padre durante un terremoto. Ci sono tantissimi momenti che non hanno niente di comune in questo film che non usa mai una volta un clichè ma semmai ne inaugura di propri, fino a chiudersi con un confronto con il padre sul molo che può facilmente commuovere per disperata sincerità (il padre, in un'accensione di inventata gentilezza si raserà baffi e capelli per mostrarsi nudo e diverso, finalmente conciliato davanti a Jodorowsky giovane e vecchio).