[Cannes 2016] La Pazza Gioia, la recensione

Capace di unire uno sguardo tenero con una sceneggiatura cinica, La pazza gioia è uno dei migliori gioielli della mitologia filmica italiana contemporanea

Critico e giornalista cinematografico


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C'è un momento in La Pazza Gioia in cui entrambe le protagoniste, due donne con problemi mentali riscontrati clinicamente, esprimono a voce alta il desiderio di morire. Al pubblico questo desiderio non arriva come uno shock perché il film in molti modi già ha suggerito che la loro parabola potrebbe avere questo finale. L'impressione è che, si fosse trattato di un film anglo-sassone probabilmente così si sarebbe concluso, tanto è presente un senso di fine incombente (non fosse altro che per la vicinanza di spirito di alcuni punti con Thelma & Louise). Lo stesso è anche sempre altrettanto chiaro che il film non avrà questa fine, perché il nichilismo non alberga in questo mondo, il mondo del cinema italiano tradizionale.

Paolo Virzì da sempre fa cinema italiano classico, porta sulle sue spalle un'eredità pesantissima e la mette in scena ogni volta cercando contemporaneamente di guardare avanti, a modo proprio cerca di portare avanti un'idea di cinema che lo precede. Non è nè un merito nè un difetto ma una scelta che lo caratterizza. Come potrebbe quindi un film così classico far compiere alle proprie protagoniste l'atto che nemmeno Umberto D. aveva il coraggio di compiere? Il risultato è che attraverso l'ostinata resistenza di questi esseri umani al desiderio di porre fine a tutto si manifesta un'umanità così caratteristica dello spirito nazionale per come lo ha sempre messo in scena il cinema, che commuove. C'è una coerenza così invidiabile tra l'ostinazione a tenere duro e la contaminazione tra dramma e commedia (qui tesa fino agli estremi) che è invidiabile. In un paese in cui non si raccontano finali suicidi ma personaggi che "andranno avanti", anche se non si sa come, le commedie non possono che essere contaminate di dramma e le tragedie non possono che far anche ridere. La Pazza Gioia in ultima analisi mette in scena questo: la nostra ostinazione a non contemplare il nichilismo quando raccontiamo il mondo. Ed è inebriante vederlo accadere sullo schermo.

Con l'apporto fondamentale di Vladan Radovich questa volta Virzì lavora molto meno del solito sui luoghi e cerca invece il modo migliore per avere in ogni istante la distanza giusta dai personaggi. Esattamente questo rende La Pazza Gioia un film diverso dai suoi simili (i film sui matti, i film sulle fughe, i film sulla sete di libertà, i film sugli ultimi che rimarranno ultimi), il fatto di vivere di un sottile equilibrio nella distanza dalle protagoniste, un contrasto unico tra tenerezza e repulsione. La tenerezza è quella dello sguardo che Virzì ha da sempre, è la sua caratteristica saliente più evidente, l'unico cineasta che riesce a guardare con tenerezza anche le donne nell'atto di essere donne, nel momento in cui utilizzano o lasciano sfuggire il loro appeal sessuale; la repulsione al contrario è molto ben dosata nella sceneggiatura di Francesca Archibugi, ed è ciò che rende plausibile il testo in ogni momento, ciò che gli impedisce di fuggire nel buonismo. Le due matte del titolo non sono eroine incomprese da una società arrogante ma persone disturbate ed effettivamente pericolose, ciò che hanno fatto per meritare l'appellativo di matte e la reclusione conseguente è un segreto che il film non a caso custodisce a lungo, promettendo allo spettatore di rivelarlo un po' alla volta. Quando verrà svelato sarà l'ultimo di una serie di atti che rimarcano la vera pericolosità di queste persone e la necessarietà delle terapie o dei divieti che gli sono imposti e che la tenerezza spesso ci fa apparire ingiusti.

Come si può guardare con tenerezza personaggi le cui azioni sono così poco condivisibili? Non aderendo al loro punto di vista (che è folle, per l'appunto) ma simpatizzando con le loro pulsioni. Per questo tra Micaela Ramazzotti, matta introversa e dura picchiata dalla vita, e Valeria Bruni Tedeschi, donna ricca, viziata e arrogante ad un livello tale da sconfinare nella follia, è la seconda a conquistare, non solo per il suo essere la linea comica del film (mentre Micaela Ramazzotti dovrebbe essere quella sentimentale) ma perchè sono suoi i momenti in cui la tenerezza si unisce alla presa di distanza, è lei la più difficile da condividere eppure la più facile da comprendere. Non è nemmeno una questione di interpretazioni, per quanto possa sembrarlo, ma di conflitto interno al personaggio.

Quella malinconia che intenerisce nonostante tutto e quel rifiuto immotivato della soluzione più radicale che grida cinema italiano da ogni poro, prendono davvero corpo nella matta piena di profumi, vita e immotivata voglia di fare, tutto nel nome di una gioia che si presenta quindi come "pazza" non perchè "forte" ma perchè esiste nonostante non abbia ragione per farlo.

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