[Cannes 2016] The Last Face, la recensione
Pomposo, retorico e completamente sfasato, The Last Face vuole ostentare interesse per le tragedie del terzo mondo ma senza rinunciare a parlare del primo
Puro colonialismo filmico lo si potrebbe definire, inserendo due esseri umani esterni al conflitto, facendone le bandiere della bontà occidentale, gli angeli di un'impresa che pare futile anche a loro ma lo stesso necessaria, Sean Penn fa slittare il problema dalle vittime a chi le vittime le guarda e tenta di aiutarle. Come se non bastasse i discorsi pomposi sull'amore, le banalità spinte sullo starsi vicini guadagnano sempre più centralità levandola allo sfondo ingombrante di bambini soldati, morti e arti maciullati. Nel film ci sono entrambe le cose ma le prime sovrastano in "drammaticità" le seconde.
Eppure solo 10 anni fa Sean Penn era riuscito a raccontare senza retorica e senza boria la storia di Alexander Supertramp in Into the Wild, si era messo nella posizione migliore per mostrare sia le luci che le molte ombre, qui invece gli interessa solo il suo amore frastornato in un ambiente difficile, ma difficile per i suoi protagonisti!
Per questo vedendo le paturnie e i turbamenti di Javier Bardem e Charlize Theron che dopo aver fatto l'amore si svegliano, splendidi, tra le lenzuola pulite della loro branda in un campo medico in mezzo ai morti e si guardano con intensità perché il loro è un amore difficile, si prova un senso montante di fastidio per l'assurda pretesa del film di essere significativo, umano e dalla parte di chi soffre. The Last Face è come un padrone magnanimo che dalla sua tenuta guarda i suoi giardinieri di colore faticare a tirare a campare e si commuove dietro le tende bianche, pensando più al proprio dolore che al loro.