[Cannes 2016] È Solo La Fine Del Mondo, la recensione
Determinato ad unire il massimo dell'odio e dell'amore fino a non riconoscerli più, Juste la fin du monde è un film come non ne abbiamo mai visti
È Solo La Fine Del Mondo dovrebbe raccontare di uno scrittore famoso di 35 anni che torna a casa, si capisce dopo una lunga assenza che è coincisa con un lungo silenzio, per annunciare a madre, sorella minore e fratello maggiore che sta per morire. Non c’è niente nel film di quel che ci si può attendere dalle premesse, addirittura è difficile anche capire chi sia il vero protagonista.Fa onestamente paura la disinvoltura con la quale Xavier Dolan mette sullo schermo film che non somigliano a niente altro visto in precedenza
Determinato a fare un film per stomaci forti del melodramma, uno urlato, pieno di colori e inquadrature ravvicinate, con giochi di messa a fuoco come in Laurence Anyways, e supportato da una colonna sonora di violini che gridano barocco ad ogni impennata, Dolan non vuole andarci leggero ma cerca lo Sturm und Drang, cerca la comunione con il mondo circostante, con la luce fantastica di André Turpin, il vento e i tramonti ma anche la memoria individuale, per scatenare una tempesta umana, in cui le persone sono i fulmini e le parole sono le onde che si infrangono le une sulle altre. Talmente è denso questo film che sembra un cortometraggio (dura 90 minuti ma va via come un colpo di proiettile), talmente rifiuta la logica e non ha intenzione di essere razionale o spiegare le ragioni di ognuno, che è facile respingerne la saturazione emotiva e odiarlo.
È Solo La Fine Del Mondo utilizza un protagonista distante e non ricettivo come veicolo, è lui il più vuoto dei personaggi, l’artista famoso che torna a casa ed è venerato in modi diversi dalla famiglia, l’uomo che vede il suo passato in quelle mura e lo odia silenziosamente fino a farci capire che dev’essere stato terribile crescere là. Dall’altro lato sono i famigliari a essere il vero cuore sentimentale: la madre piena d’amore che ne comprende anche il distacco e lo implora in un momento struggente di essere all’altezza di un ruolo che lui rifiuta (quello di capofamiglia); la sorella innamorata di lui, praticamente senza averlo conosciuto che era davvero convinta che qualcosa sarebbe cambiato con questa venuta; il fratello maggiore, il più sorprendente di tutti, così carico di livore, così incomprensibile nelle sue azioni e così bisognoso di qualsiasi cosa.
La cosa disarmante però è che il film poteva esistere anche così e sarebbe stato comunque un’opera vorticosa, capace di sanare qualsiasi sete di umanità lo spettatore potesse avere. Eppure, come già in Mommy, esiste una specie di dosso in questa storia, un personaggio terzo, esterno agli eventi, totalmente comprimario, interpretato da Marion Cotillard, uno che non ha niente a che vedere con la famiglia (è la moglie del fratello maggiore), che è lì e assiste impotente a ciò che accade, ma che solo grazie alla maniera in cui Dolan la guarda diventa il catino in cui tutte le emozioni vanno a finire. Come se fosse l’essere umano più sensibile sulla faccia della Terra si carica di tutto ciò che vede senza restituirlo, assorbe ogni sentimento, buono o cattivo che sia come a preservarlo o a nasconderlo a seconda dei casi.
Interpretata con un equilibrio che meriterebbe il più alto riconoscimento al valore filmico che esista sul pianeta, questa donna sta dietro, osserva, parla poco e quando lo fa tentenna, eppure è una delle cose più straordinarie, uniche e preziose che io abbia visto da quando mi occupo di cinema. Forse il singolo maggior contributo di Xavier Dolan all’arte del racconto. Ogni film da oggi in poi dovrebbe avere un personaggio simile.