[Cannes 2016] La Fille Inconnue, la recensione

Soli e abbandonati nel mondo viviamo in balia delle scelte che noi e i nostri simili facciamo, La Fille Inconnue è una nuova favola morale dei Dardenne

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
In un mondo senza Dio, costruito per essere laico e privo di qualsiasi guida o regola più alta, come è quello che i Dardenne ogni volta mettono in piedi per i loro film, prendere le decisioni quotidiane è un inferno e l’involontaria violenza contro il prossimo si nasconde anche nelle più innocenti prese di posizione. La Fille Inconnue ancora una volta mette la sua protagonista di fronte ad una scelta facilissima, il cui esito però sarà gigantesco. Medico in uno studio privato, decide di non rispondere al citofono un’ora dopo l’orario di chiusura. Il giorno dopo scoprirà che chi aveva suonato era una donna in cerca di aiuto che poco dopo è stata trovata morta. La difficoltà da parte della polizia di ricostruirne l’identità diventerà un’ossessione per il medico che comincerà a cercare da sè una risposta, non facendo altro che scoperchiare altri dettagli e altre decisioni prese da altre persone quella sera.

Il destino e la vita sono la combinazione di una serie di scelte che hanno a che vedere con il contrasto tra il nostro interesse e quello degli altri, le operette morali dei Dardenne di questo parlano ogni volta, ma a differenza delle favole classiche non esistono per indicare una via, quanto per intorbidire le acque. La favola morale classica ha nella chiarezza espositiva dei ruoli il suo centro, nell’indiscutibile sicurezza con cui afferma cosa sia giusto e cosa sbagliato il suo senso. I film dei Dardenne sono l’esatto contrario, mostrano come tutto quel che ci sembra giusto a posteriori non lo è a priori, attraverso il cammino di una persona che tenta di fare la cosa più corretta.

Sarebbe difficile definire La Fille Inconnue uno dei film migliori di questi cineasti incredibili, capaci di mettere in scena il massimo dello svolgimento filmico (in questo caso quasi una detective story con un paio di momenti di azione) con uno stile così mascherato da iperrealismo, così minimalista e così ridotto all’essenziale da impressionare. Tuttavia può davvero esistere un film girato con queste intenzioni e questo stile che non sia anche solo appassionante? La tenacia con cui questi cineasti si ostinano a raccontare la disperazione umana in un mondo che non gode della consolazione religiosa, in cui non c’è mai nemmeno il minimo alito di trascendenza o anche solo di destino, non ha niente a che vedere con il caos di Allen o dei Coen ma molto più con la rassegnazione filosofica, con una dignità materialista invidiabile.

Pur non parlando mai di religione i Dardenne non fanno che affermare che siamo soli e abbandonati, dallo stato come da qualsiasi cosa ci trascenda, siamo esseri umani soli con le nostre scelte che tornano costantemente ad assillarci e infestarci la vita. I loro protagonisti sempre così distanti da tutto, tranne in un pugno di scene dall’emotività controllatissima, vivono i contrasti più duri con la serietà più necessaria. Da soli e con le loro avventure affermano che non esiste una vera guida morale ma solo situazioni particolari in cui prendere decisioni che saranno valide e buone solo per quel caso. E questa è la parte più difficile dell’essere vivi.

Continua a leggere su BadTaste