[Cannes 2016] Cafè Society, la recensione
La prima collaborazione tra Woody Allen e Vittorio Storaro è una rivelazione, Cafè Society parla con le immagini una lingua tutta sua
È almeno da Midnight in Paris che questo regista si guarda indietro. Adesso sono gli anni '30 di Hollywood con un impressionante quantitativo di nomi e cognomi reali tirati fuori, feste ricostruite e sfoggio di ricchezza in ville o interni da società del cafè, da jet set d'epoca. Il dolcissimo passato che forse così non è mai esistito, tanto è patinato e dorato, sembra a tratti ricordare le commediole d'epoca ma dalla metà in poi si rivolta in un film amaro e drammatico. Non ci sono mai momenti fiammeggianti da melò però e nemmeno le accensioni di tragedia che avevamo visto in Blue Jasmine, solo una disincantata tristezza sulla difficoltà di concretizzare l'amore e l'esigenza di doversi accontentare per tutti i personaggi della storia.
Come è possibile che un professionista della rapidità e della catena di montaggio sia riuscito a fare un film dalle scene così complesse?Ciò che tuttavia non si può non apprezzare in questa sceneggiatura tra le meno sorprendenti di Allen, è come questi personaggi in transizione, questi due ragazzi (Jesse Eisenberg e Kristen Stewart) che vengono mutati dalle città in cui vivono, abitino scene in cui i loro cambiamenti sono indotti dalle luci e dalle inquadrature. Ci sono alcuni dei movimenti di macchina più semplici e decisivi dell'arsenale di Storaro in Cafè Society, momenti di puro cinema in cui recitazione e sagome si uniscono, e un volto su cui si spande un sorriso viene illuminato da una luce ramata grazie al solo spostarsi di poco dell'obiettivo. Ci sono luci che vanno via in casa lasciando un graduale spazio alle candele, enfatizzate sui volti dal muoversi nella scena ma anche momenti di sole dal bianco splendente al pari di tramonti gialli indimenticabili, eppure ogni scena in cui accade qualcosa di significativo non finisce con la luce con la quale era iniziata e le transizioni sono slittamenti fantastici.Woody Allen è un cineasta noto per girare in fretta, non fa quasi mai campi e controcampi e preferisce invece avere entrambi gli attori in scena, così fa prima, non si improvvisa mai sui suoi set ma si dice le battute come le ha scritte per non perdere tempo, insomma è un cineasta industriale, uno dal passo impressionante di un film l'anno. Come è possibile che un professionista della rapidità e della catena di montaggio sia riuscito a fare un film dalle scene così complesse? Uno in cui gli interni del locale newyorchese del protagonista sembrano il frutto di un lavoro mostruoso di architettura per il cinema, con la luce emanata dalle pareti stesse, uno in cui ogni interno, ogni villa e ogni momento ha un colore specifico che si abbina perfettamente a quello degli abiti portati (l'immagine che apre il film è semplicemente mostruosa, satura di un blu meraviglioso).
Allen voleva raccontare (lo dice all'inizio) un'epoca e un luogo, cioè Hollywood negli anni '30, il cui sfarzo e la cui bellezza sono rimasti nella storia e per farlo ha imbastito, attraverso scenari in cui si dovrebbe sempre essere felici, una trama la cui amarezza è davvero comprensibile quando arriva l'ultima dissolvenza verso il nero.C'è insomma molto poco di memorabile nei personaggi e negli eventi di Cafè Society, sono persone abbastanza ordinarie a cui capitano intrecci strani e originali ma in fondo naturali per il cinema. Anche alcune transizioni nella storia sono meccaniche, sembrano attaccate in fretta come si farebbe nella cattiva tv di una volta. Eppure l'atmosfera data dalle luci sempre cangianti di Storaro, il soffice mondo al tramonto in cui sembrano sempre muoversi e quel senso di malinconia infuso dalla messa in scena sono realmente indimenticabili, tutte insieme creano uno dei momenti più originali e da celebrare nella carriera (sconfinata) di quest'autore.