[Cannes 2014] Foxcatcher, la recensione

Grazie ad una prestazione superba di Mark Ruffalo il film di sport e cronaca di Bennett Miller (che stavolta non gode di uno script di Aaron Sorkin) si salva dalla banale ricostruzione..

Critico e giornalista cinematografico


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C'è di nuovo lo sport ai massimi livelli (e di nuovo una storia vera) nell'ultimo lavoro di Bennett Miller che nel 2011 aveva dimostrato un tocco lievissimo, ma fermo e deciso riguardo gli obiettivi, nel mettere in scena la superba sceneggiatura di Aaron Sorkin in L'arte di vincere. Ora la gentilezza espressiva di Miller si rivolge al mondo dilettantisco di prima fascia, la lotta greco romana di livello olimpico. Non più lo sport delle grandi società appesantite da investimenti ingenti, sponsor e molta politica ma quello degli individui.

Se infatti L'arte di vincere era una sceneggiatura centrata sulla difficoltà di innovare all'interno di strutture grandi, potenti e diffidenti del nuovo, Foxcatcher è invece una storia di famiglia che ama indugiare sul delicato equilibro psicologico necessario per emergere. In entrambi la vittoria è un concetto molto relativo e mentre i protagonisti la associano unicamente al trionfo sportivo, nello spettatore matura sempre più la convinzione che dietro le quinte dello sport si svolgano altre battaglie che possono condurre ad altre vittorie umane, indipendenti dal risultato della competizione. Forse il modo più originale di ragionare intorno al senso dello sport e alla più antica massima in materia.

E questa volta è tutto merito della prestazione complessa del malleabile Mark Ruffalo se la vera storia di Mark e David Schultz diventa una passione umana che risucchia ogni altra istanza della trama. Ruffalo trova delle movenze e una postura piegate e deformate da anni di sport che rendono ogni movimento del suo veterano della lotta grecoromana un momento di poesia. Ogni gesto d'affetto sembra una mossa di lotta riutilizzata per fini sentimentali, ogni abbraccio una presa e (cosa ben più clamorosa) ogni presa al fratello più fragile (ma più grosso di fisico) un abbraccio.
Rispetto al John du Pont di Steve Carrel (truccatissimo e difficilmente riconoscibile) Ruffalo con una barba e movenze inedite diventa un altro esseree umano effettivamente e non solo nelle sembianze. Diventa una persona che sembra esistere per comunicare il senso stesso della fratellanza e dell'armonia.

Proprio in questo senso è apertamente di parte tutta la ricostruzione dei fatti di cronaca che hanno coinvolto i due Schultz e du Pont, molto determinata a descrivere quest'ultimo come uno squilibrato nutrito a furia di rapporti malsani in un ambiente di insana opulenza. Così il film ha gioco facile a contrapporlo ai ragazzoni autentici e fragili, americani semplici e onesti. È ovviamente la parte più pigra del film, che si accontenta di riportare l'autobiografia di Schultz senza cercare la complesità umana dietro ai personaggi messi in scena, soddisfatto dei propri stereotipi. Ma se si ha il coraggio di andare al sodo di questo film si tratta di dettagli trascurabili.

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