Il cane che guarda le stelle, la recensione

Ci sono stati, ci sono e ci saranno ancora infiniti modi di testimoniare l'amicizia tra l'uomo e il suo migliore amico: con Il cane che guarda le stelle Takashi Murakami lo fa in maniera alquanto originale e genuina

Classe 1971, ha iniziato a guardare i fumetti prima di leggerli. Ora è un lettore onnivoro anche se predilige fumetto italiano e manga. Scrive in terza persona non per arroganza ma sembrare serio.


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Ci sono stati, ci sono e ci saranno ancora infiniti modi di testimoniare l'amicizia tra l'uomo e il suo migliore amico. Con Il cane che guarda le stelle (Futabasha, 2008), edito in Italia da J-POP, Takashi Murakami lo fa in maniera alquanto originale e genuina. Non aspettatevi un manga zuccheroso o strappalacrime, anche se raccontato in prima persona dall'animale. Questo seinen è una vicenda dolorosa, talvolta angosciante, espressa con estrema linearità e con quell'equilibrio tra distacco e tenerezza che contraddistingue da sempre il fumetto giapponese d'autore.

Happie è un cucciolo che finisce in una famiglia piccolo borghese per il capriccio della figlia. Il padre si affeziona subito alla creatura, comincia a prendersene cura, stringendo e condividendo un rapporto che diventa sempre più forte, intimo, fino a diventare l'unico per l'uomo, che perde prima il lavoro e poi i suoi cari.

Il volume racchiude due storie, in realtà: la prima inizia dalla fine della vicenda e segue il percorso del bestiola e degli avvenimenti che man mano sfaldano e stravolgono l'esistenza del suo padrone; il secondo episodio, I girasoli, ne è a tutti gli effetti un sequel, incentrato sull'assistente sociale che deve per lavoro (e vuole per empatia) andare a fondo sui fatti legati alla fine di Happie e del suo proprietario. Il loro legame speciale, o quello che sembra tale al protagonista, risveglia in lui il rimpianto del cane avuto quand'era ragazzo e gli infonde la determinazione e la sensibilità per venire a capo del caso, o almeno recuperare una parte preziosa del suo passato.

A una sceneggiatura efficace ed essenziale corrispondono disegni che rispecchiano la bellezza minimalista della trama, spezzata sul finire con un messaggio ben più profondo, non circoscritto all'amore per gli animali. È un monito a recuperare i valori e le relazioni che contano veramente nella vita. È diretto con particolare enfasi alla società nipponica, anestetizzata dalla volontà di carriera e dai piaceri più disparati, ma può valere per tutti i paesi occidentali. Il cane che guarda le stelle, precisa Murakami, indica una persona che desidera ciò che non può avere e non comprende ciò che gli accade intorno, ricordando: Siamo tutti cani che guardano le stelle.

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