Candyman, la recensione
Scritto da Jordan Peele e diretto da Nia DaCosta, questo film segue direttamente il Candyman del 1992 ma parla del presente
Quando c’è Jordan Peele di mezzo il punto di tutto è sempre il corpo afroamericano. Non più il corpo vessato e martoriato dalle botte o dal maltrattamento com’è stato per decenni nel cinema bianco anti-razzista (e in fondo anche in 12 anni schiavo) ma il corpo di afroamericani benestanti che è abitato da altri, agito da altri. È quella la paura principale su cui lavora Peele mentre ci distrae con film che raccontano di altro: il fatto che la società si voglia appropriare del corpo nero e usarlo.
Questo diretto da Nia DaCosta è un gentrification horror che scarta i quasi obbligatori richiami allo slasher anni '80, in cui le morti avvengono in splendidi appartamenti dentro palazzi nuovi di zecca che sorgono a lato di edifici abbandonati, o in gallerie d’arte in cui espongono gli artisti che hanno popolato il quartiere dopo al riqualificazione, e i cui mostri sì annidano nelle intercapedini o negli edifici abbandonati, non riqualificati e quindi dimenticati.
Perché, di nuovo come abbiamo visto accadere altre volte nei film scritti da Jordan Peele, le conseguenze del razzismo e le nuove forme di razzismo sono indagate a partire dai benestanti, non dai più poveri. È là dove ad inizio film ci sembra che il razzismo non penetri che invece lo vediamo arrivare da direzioni e in modi inediti.
Come in Noi c’è un inizio con un bambino che vede qualcosa che capiremo alla fine, come in Get Out c’è un protagonista che lotta per non essere “posseduto”. Su tutto aleggia il fatto che la coppia al centro della storia (lei gallerista, lui pittore) sono consci del fatto che l’arte afroamericana tira. Il razzismo è un business di bianchi che, viene detto: “Amano il nostro lavoro ma non noi”. E fa pensare il fatto che i due protagonisti siano esattamente nella posizione di Peele e DaCosta, due afroamericani che fanno la cosa più cool del momento (un horror patinato), affrontando temi politici in modo esplicito e trovando, anche per questo, successo e approvazione.
Questo Candyman non parla del razzismo in generale ma di quello di oggi, attualissimo. Ciò che oggi gli afroamericani hanno da proporre è desiderabile, non interessa però quel che sanno fare o possono fare, ma ciò che rappresentano. Non sono più campi di cotone ma altri lavori, più alti, quelli per i quali vengono cercati ma come ieri rimangono lo strumento per il guadagno altrui: “Candyman è la nostra reazione ad eventi simili che ancora si verificano”, è la didascalica spiegazione di come mai, ad un certo punto ritornano gli omicidi, ritorna l’invasione del mostro e perché, alla fine, diventa indispensabile. È un po’ sbattuta in faccia ma Nia DaCosta nonostante la grande patinatura e anche una certa abilità a sporcarsi le mani come si deve con l’orrore non ha la mano di Jordan Peele. E così il film funziona più nel suo impianto teorico che in quello epidermico, nonostante qualche momento di paura centrato.
Lo capiamo, ancora una volta come spesso nei film di Peele, quando arriva la polizia. Nel momento in cui in qualsiasi altro film l’arrivo della polizia sarebbe un sollievo nelle storie di Jordan Peele è un problema, perché i protagonisti sono afroamericani. Così Candyman che è un horror per tutta la sua durata, come il film del 1992, alla fine si trasforma nell’origin story di un giustiziere. E proprio qui sta la parte migliore del lavoro di Nia DaCosta, leggere il film originale con un altro occhio e impiegare tutto un altro film per cambiare genere alla storia e mostrare che quello che viene visto come una minaccia, da un altro punto di vista è la risposta a una violenza.