Campo di battaglia, la recensione: solo il bromance poteva salvare Montesi e Borghi
Gianni Amelio trova in Campo di battaglia un passo e un tono fantastici che i suoi protagonisti riescono a intercettare, ma poi manca tutto il film
C’è una corrispondenza tra forma e recitazione che è ciò che fa Campo di battaglia a partire dal suo inizio. C’è un ritmo e un tono quieto, a dispetto di quel che è raccontato cioè le sofferenze e i dolori dei soldati feriti della prima guerra mondiale in un ospedale del Friuli nel 1948, che si ritrovano in una scrittura molto moderata e per certi versi affettata, e poi ancora nella recitazione di tutti, soprattutto Gabriel Montesi e Alessandro Borghi, che è davvero la conquista più forte di questo film. In particolare una prima scena così tenue, di esplorazione dei cadaveri sul fronte, è impressionante, quasi come quella finale di Il signore delle formiche (unico punto da ammirare in quel film), in cui alle velleità si sostituisce la concretezza del cinema fatto di immagini e tempo. Tempo del montaggio, tempo delle azioni e tempo della performance dell’attore. Perfetto.
Questo è un film che passeggia, esattamente come fa Montesi con dei capelli da Amedeo Nazzari tra i letti d’ospedale. Che non ha bisogno di parlare forte per farsi sentire. In questo è molto bello. Poi però viene il momento di fare anche il film, cioè di iniziare a prendere di petto ciò di cui vuole parlare. E lì è un altro paio di maniche. La storia contrappone questi due medici che trasudano bromance senza mai attualizzarlo. Niente nella pratica suggerisce un loro amore, tutto nel linguaggio del corpo lo grida con forza. Ma la trama è un’altra e si disinteressa di questa intesa. Loro due sono due visioni opposte della guerra e vengono investiti dall’arrivo di una serie di malati di una influenza molto pericolosa. Quando indossano la prima mascherina capiamo che è la spagnola, e che stiamo parlando anche inevitabilmente del COVID sotto mentite spoglie.