Calcinculo, la recensione

Due solitudini che s'incontrano scatena un classico del cinema italiano: il film più di concetto che di immagini, di ragionamento e non di trasporto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Calcinculo, in uscita il 24 marzo

Per Andrea Carpenzano i capelli non sono un dettaglio. Sono uno degli asset fondamentali della sua recitazione, sono curatissimi, stilosi e burini in Il campione, sono colorati in Lovely Boy, ordinati (più o meno) da bravo ragazzo in Tutto quello che vuoi, raccolti in Guida romantica a posti perduti, col doppio taglio da periferia in La terra dell’abbastanza. Ogni volta sono un modo per creare il personaggio. Qui sono chiusi in una crocchia, usati per raccontare una vita di diversità, ambizioni edoniste e desiderio di apparire. È forse l’attore italiano giovane che più di tutti utilizza il corpo, a partire per l’appunto dai capelli, e che cambiando poco sembra trasformarsi molto.

È lui, che sarebbe una spalla, e non la protagonista, il vero cuore di questo film. Ed è un problema.

Calcinculo è la storia di una ragazza sovrappeso con una madre che la sprona a dimagrire, una ragazza che si sente tagliata fuori da tutto e che incontra un ragazzo che gira con i giostrai, a differenza della ragazza lui è molto estroverso e sembra non avere timore della vita ma, similmente a lei, è una personalità ai margini che desidera e non ha. Il secondo dovrebbe aiutare la prima ma come detto avviene il contrario. È probabilmente un problema di casting della protagonista, che funziona poco e sì fa continuamente rubare la scena da Carpenzano e dall’eccezionale Barbara Chichiarelli, cui basta pochissimo per imporre se stessa e i temi del proprio personaggio. I due da comprimari comunicano meglio le questioni dei loro personaggi, il che ci porta a desiderare di seguirli, ad interessarci più a loro che alla protagonista, desideriamo avere ancora di quel che hanno da dire con il volto e con il corpo.

Questa classica storia di due reietti cerca di raccontare una persona che non si sente parte di niente, che non si identifica con il mondo intorno a sé, facendogli incontrare un’anima affine (per quanto diversa), ma come molti esordi italiani (sebbene questo sia il secondo film di Chiara Bellosi) anche Calcinculo ha il problema di funzionare più sulla carta che nella testa dello spettatore, di mettere in scena un ragionamento invece di immagini che lo suggeriscano e lo facciano emergere. E anche quelli che si capisce che il film considera i suoi punti di forza non lo sono mai, le scene più elaborate e intense sembrano vivere a sé, come piccoli assoli, senza dirci realmente qualcosa di più grande sul racconto che se un momento buono ce l’ha è semmai nell’ultima parte, quella di trasformazione, in cui il ritmo sembra distendersi e la protagonista sembra guadagnare in centralità.

Peccato che poi un finale che vorrebbe essere aperto ma in realtà è solo irrisolto chiuda tutto con un sorriso e una metafora (il calcinculo del titolo, la conquista di un obiettivo che prima sembrava irraggiungibile), senza davvero affrontare i temi che ha messo sul tavolo.

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