Caccia al Tesoro, la recensione

Con uno spunto anni '30, un equivoco iniziale da opera di De Filippo e un tono da commedia anni '50, Caccia Al Tesoro chiude il cerchio della nostalgia

Critico e giornalista cinematografico


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All’opposto logico dello spettro cinematografico dei film di Edgar Wright c’è Caccia Al Tesoro. Se il regista britannico è il campione del cinema che cerca di unire commedia e genere, senza per questo essere meno serio con il genere (anzi!), i fratelli Vanzina con Caccia Al Tesoro piegano il film di rapina e trasformano tutto in esso in farsa, ogni componente, ogni dettaglio, ogni luogo comune. Non sfociano mai nella presa in giro e nella parodia (sarebbe, in sé, un altro genere ancora) ma sono determinati a non essere seri con esso.

Paradossalmente però l’obiettivo è lo stesso di Wright nella sua trilogia del cornetto: raccontare dei personaggi che non sono adeguati al genere di storia in cui sono presi ma che lo stesso desiderano portarla a termine.

In realtà il genere vero dei film che i fratelli Vanzina realizzano con costanza dal 2010 (da La Vita è una Cosa Meravigliosa) è la commedia italiana degli anni ‘50 e ‘60. Per tutta la vita hanno flirtato con quel tipo di strutture e ingenuità ma solo in questi ultimi anni sembrano aver davvero preso di petto quei film, con decisione e determinazione. E Caccia Al Tesoro, in questo senso, è uno dei più riusciti. Per struttura, concezione, ritmo e gag sembra un progetto pensato nel 1954, solo lo spunto viene dritto dai primi del Novecento: un attore senza soldi ha bisogno di 160.000€ perché suo nipote deve operarsi al cuore in America. A Chaplin poi i fratelli aggiungono il De Filippo classico, perché nel chiedere la grazia a San Gennaro l’attore e sua cognata scambiano la voce di un parcheggiatore che invita ad “andare avanti” per quella del santo, e accanto a loro un altro spiantato che ha sentito tutto, li convince a prenderlo nella banda perché “poteva anche essere che dicesse a me”.

È tutta una scusa per mettere insieme una coppia più che rodata (Salemme e Buccirosso) con un altro cavallo di razza della scuderia Vanzina, Max Tortora, ma paradossalmente proprio questa è la parte più riuscita di tutta l’operazione. Come nelle commedie più svelte e rapide della nostra tradizione del dopoguerra infatti i Vanzina degli ultimi anni scrivono soggetti e sceneggiature ma abbozzano i dialoghi, preferendo lasciare l’incombenza della comicità agli attori che scelgono, capaci di creare, improvvisare e aggiungere il proprio umorismo.

Capita dunque che i duetti tra Salemme e Buccirosso e quelli dei due con Tortora sembrino intrattenere con il resto del film il medesimo rapporto che i duetti tra Totò e i suoi vari partner intrattenevano con il resto dei suoi film.

È un modo di fare commedia che ora, dopo 7 anni di pratica e rodaggio, sembra finalmente riuscire a dovere, evitando il più possibile la piaga della sciatteria che aveva funestato molte delle loro ultime produzioni.
Caccia Al Tesoro dichiara dall’inizio il suo semplicismo e le sue ambizioni limitate, usa Napoli con occhio commerciale (la tv ha decretato che è il momento di questa città e il cinema segue), abusa come sempre di riferimenti instant alla politica e al calcio, cita il cinema che i due autori preferiscono a chiara voce, ma sa anche trovare dei momenti di umorismo e recitazione buonissimi. Lo spiega bene l’inizio, in cui Serena Rossi cerca di adeguarsi al tono farsesco esagerando con l’enfasi mentre Salemme, più a suo agio e sfumato riesce ad essere ben più adeguato con la metà del carico.

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