Caccia al Tesoro, la recensione
Con uno spunto anni '30, un equivoco iniziale da opera di De Filippo e un tono da commedia anni '50, Caccia Al Tesoro chiude il cerchio della nostalgia
Paradossalmente però l’obiettivo è lo stesso di Wright nella sua trilogia del cornetto: raccontare dei personaggi che non sono adeguati al genere di storia in cui sono presi ma che lo stesso desiderano portarla a termine.
È tutta una scusa per mettere insieme una coppia più che rodata (Salemme e Buccirosso) con un altro cavallo di razza della scuderia Vanzina, Max Tortora, ma paradossalmente proprio questa è la parte più riuscita di tutta l’operazione. Come nelle commedie più svelte e rapide della nostra tradizione del dopoguerra infatti i Vanzina degli ultimi anni scrivono soggetti e sceneggiature ma abbozzano i dialoghi, preferendo lasciare l’incombenza della comicità agli attori che scelgono, capaci di creare, improvvisare e aggiungere il proprio umorismo.
È un modo di fare commedia che ora, dopo 7 anni di pratica e rodaggio, sembra finalmente riuscire a dovere, evitando il più possibile la piaga della sciatteria che aveva funestato molte delle loro ultime produzioni.
Caccia Al Tesoro dichiara dall’inizio il suo semplicismo e le sue ambizioni limitate, usa Napoli con occhio commerciale (la tv ha decretato che è il momento di questa città e il cinema segue), abusa come sempre di riferimenti instant alla politica e al calcio, cita il cinema che i due autori preferiscono a chiara voce, ma sa anche trovare dei momenti di umorismo e recitazione buonissimi. Lo spiega bene l’inizio, in cui Serena Rossi cerca di adeguarsi al tono farsesco esagerando con l’enfasi mentre Salemme, più a suo agio e sfumato riesce ad essere ben più adeguato con la metà del carico.