Butcher's Crossing, la recensione

In questo mondo naturale un po’ magnificato, un po’ ostile e un po’ indifferente, Gabe Polsky non riesce a trovare il suo vero punto di vista, muovendosi per inerzia.

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La recensione di Butcher’s Crossing, presentato alla Festa del Cinema di Roma

Di usare il western e le sue atmosfere per parlare di ambientalismo e colonialismo americano l’aveva già fatto Iñárritu con Revenant: lo fa anche Butcher’s Crossing di Gabe Polsky, in maniera piuttosto diversa (e diciamolo, molto meno convincente) adattando l’omonimo libro di John Williams del 1960. Diverso perché in Butcher’s Crossing c’è sì il senso dell’avventura, della scoperta della natura selvaggia, ma questa natura pur essendo anche qui ostile è comunque una frontiera naturale che impedisce ai personaggi un desiderato ritorno al caldo delle loro case, della civiltà. Una trappola, non un luogo dove ritrovarsi. Niente di sbagliato in sé, se non che Butcher’s Crossing si rivela poi un film dall’intento diverso, prettamente storico, poiché nel parlare della caccia ai bisonti intende svelare le ironiche insidie del capitalismo americano.

Siamo nel 1874. La storia è quella di Will Andrews (Fred Hechinger), uno studente di Harvard che dal comfort aristocratico di Boston decide di andare alla scoperta della natura selvaggia del Kansas per unirsi ai cacciatori di bisonti in quelle che per lui sembrano romantiche avventure dai pericoli un po’ romanzeschi. Arrivato a Butcher’s Crossing si imbatte nel duro Miller (un misurato Nicolas Cage), che in cambio del finanziamento della spedizione lo porterà con sé e altri due soci per tentare un’impresa “larger than life”: inseguire e sterminare la più grande mandria di bisonti mai vista. Un ricordo di una sua visione passata che ormai di dissolve nel mito, ma che Miller - deciso a riscattarsi agli occhi dei colleghi - è convinto di poter raggiungere.

Le atmosfere, con una fotografia a tinte pastello, sono quelle di I fratelli Sisters di Jacques Audiard ma ancora prima di Il tesoro della Sierra Madre di John Huston. La narrazione, come nei precedenti, porta infatti ad osservare da vicino questo gruppo di uomini tracotanti che nel confronto con la natura spinta dal desiderio del denaro trovano una perdizione quasi totale.  Peccato che Gabe Polsky si lasci trasportare fin troppo dal desiderio di estetizzare una pur bellissima natura, facendosi trascinare da quella noia insofferente di cui gli stessi protagonisti sono prigionieri. Butcher’s Crossing ha quindi una storia stanca e stancante - e diciamo purtroppo, perché di spunti di riflessione potenziale ce ne sarebbero tantissimi - e che infatti sente l’esigenza di doversi spiegare nelle intenzioni attraverso il cartello iniziale e quello finale.

In questo mondo naturale un po’ magnificato, un po’ ostile e un po’ indifferente (rispetto alla superbia degli uomini) Gabe Polsky non riesce quindi a trovare il suo vero punto di vista, il suo guardo, muovendosi per inerzia. Il film infatti non ha mai momenti che rimangono particolarmente impressi, ma riesce comunque a cadere in piedi per la furba capacità che ha di essere di tutto un po’: e sta forse molto di più allo spettatore decidere cosa vederci dentro.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Butcher's Crossing? Scrivetelo nei commenti!

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