Bussano alla porta, la recensione

In Bussano alla porta il senso impareggiabile della tensione di M. Night Shyamalan si scontra con la difficoltà a risolvere trame assurde

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Bussano alla porta, il film di M. Night Shyamalan, al cinema dal 2 febbraio

Steven Spielberg è il maestro di M. Night Shyamalan, da lui prende la tecnica sopraffina al servizio della creazione della tensione, a lui guarda per la semplicità invisibile di certe soluzioni e la maniera in cui il ritmo non è il risultato ma uno strumento del film. Tuttavia se l’inquadratura che più di tutte rappresenta Spielberg è un volto attraversato dall’estasi che guarda qualcosa di meraviglioso fuori campo, quella che rappresenta Shyamalan è un volto terrorizzato che guarda nel vuoto, guarda qualcosa che non è lì o non c’è ancora o che non possiamo vedere. Questa inquadratura non ci mette molto a comparire in Bussano alla porta ed è forse il simbolo perfetto di un film tutto pensato intorno al terrore per ciò che deve venire.

Tutta la storia è un lungo attendere con paura la fine del mondo da parte di quattro personaggi che bussano alla porta di una coppia omosessuale con bambina. Questi quattro dicono di sapere qualcosa che gli altri ignorano, cioè che il mondo sta finendo adesso e che per impedire questa apocalisse uno dei due dovrà uccidere il proprio compagno. Uccidere qualcuno di caro sulla fiducia che il peggio stia per arrivare. I quattro tenteranno di spiegare, convincere, portare prove e mostrare quello che a loro è stato concesso di vedere ma si scontreranno con la resistenza e lo scetticismo della coppia, in un conflitto di idee e di accuse di menzogna.

Bussano alla porta è un film difficilissimo da scrivere e girare, fondato com’è su sei persone e una bambina che discutono e si vogliono convincere a vicenda di tesi difficili a credersi, che Shyamalan riesca poi a infondere in tutto questo un senso della tensione senza che nulla davvero avvenga è, come al solito, stupefacente. La capacità che ha di usare le armi del cinema per manipolare lo spettatore e animare tutto quel che filma dell’ansia per il mistero è come sempre fenomenale e non passa per i soliti percorsi, né somiglia alla maniera in cui gli altri cineasti procedono. Per esempio come intreccia e usa i flashback, non per dare informazioni ma per creare nel pubblico quei sentimenti di attaccamento e amore famigliare che poi servono per comprendere la tensione dei protagonisti nel presente, è incredibile.

Poi però arriva la risoluzione, e come spesso è capitato nella carriera di Shyamalanè molto al di sotto delle promesse (forse nulla poteva essere a quel livello). Parliamo della spiegazione di quale sia il punto di tutto, di cosa in ultima analisi racconti il film (cioè cosa siamo disposti a sacrificare di noi per salvare il mondo, e quanto siamo disposti a credere che la fine sia davvero in arrivo), e ancora una volta per Shyamalan arriverà l’impietosa impressione di aver partecipato e provato ansia e compassione per personaggi e una storia in realtà molto poveri e ingenui.

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