Bullet Train, la recensione

Un romanzo giapponese, una commedia all'asiatica e una sceneggiatura che copia il cinema americano di oggi e ieri

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Bullet Train, nelle sale dal 25 agosto

Se vi sembra di intravedere Kill Bill dentro Bullet Train è perché è Kill Bill in versione di commedia. La maniera in cui David Leitch sceglie di adattare il romanzo di Kotaro Isaka è guardando a tutto quel che Tarantino ha fatto in quei due film per importare dentro Hollywood stilemi, idee e svolgimenti del cinema asiatico. Non solo quindi la sceneggiatura che Zak Olkewikz ha tratto dal romanzo è animata dalla consueta supremazia dei dialoghi di Tarantino, ma anche i personaggi sono introdotti e spiegati tramite continue divagazioni, racconti che fanno in prima persona (la cosa sarà così palese che ad un certo punto diventerà anche oggetto di una gag) e similitudini con prodotti della cultura popolare. Tutti i personaggi parlano e dimostrano personalità che apparentemente stonano con il loro ruolo, la fotografia di Jonathan Sela affianca sfondi neri a colori sparati e fluorescenti come nel segmento giapponese del film di Tarantino e infine il villain principale avrà anche gli stessi capelli di David Carradine.

A guidare tutto c’è la storia di un killer sulla via della redenzione dal proprio lavoro, un po’ come Jules in Pulp Fiction. Come in quel film del resto c’è una valigetta/pretesto che non è chiaro cosa contenga a muovere l’azione e ogni situazione si ribalterà in modi inattesi, segnando il dominio del caso nelle vite di tutti e soprattutto gioendo di come uno svolgimento solo in apparenza disordinato, che non risponde alle solite regole logiche, sovverta ogni struttura, diverta e segni un altro approccio alle solite figure.

Peccato però che Bullet Train alla fine sia molto più convenzionale di quanto non voglia far credere (lo segnala ampiamente una terribile computer grafica che peggiora di scena in scena a mano a mano che arriviamo ad un finale fatto di sfondi fasulli e volti così ritoccati da risultare piallati), che non sia divertente come i film di Tarantino né sia altrettanto cool e memorabile, e alla fine riesca più che altro a rimarcare quanto sia difficile e preciso il lavoro che Quentin Tarantino fa per mescolare stilemi orientali in film pienamente occidentali. Perché alla fine questo è Bullet Train: una commedia d’azione alla cinese con personaggi giapponesi ma girata come le commedie corali americane anni ’60 e ’70, quelle in cui personaggi diversi corrono verso un medesimo obiettivo.

Se con John Wick e Atomica bionda è riuscito, in un certo senso, ad importare lo standard asiatico per il cinema d’azione (quello degli stunt molto elaborati, delle coreografie ad altissimo livello atletico e di una spettacolarità che non passa per l’artificio cinematografico ma semmai per una reale esecuzione), con Bullet Train David Leitch non riesce a fare altrettanto con il modello della action comedy asiatica, tutta incroci, intrecci, coincidenze, scambi di persona e ovviamente (di nuovo) tantissima atletica. Stavolta, un intero cast di star (parte del piacere del film sembra dover essere lo scoprire i molti cammei importanti), priva Leitch anche dei suoi famosi stuntmen affidando tutte le coreografie agli attori.

Che le eseguono al meglio delle loro possibilità amatoriali, e si vede.

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