Bubble, la recensione

Ribaltando il classico scenario post-apocalittico in un setting quasi balneare Bubble avrebbe uno spunto ma la sceneggiatura è troppo povera

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Bubble, l'anime giapponese in streaming dal 28 Aprile su Netflix

La nuova animazione giapponese romantica è sempre più celeste. Da qualche anno gli anime di maggiore successo che raccontano storie sentimentali le incastrano in grandi cieli e acque limpide, utilizzano palette tenui e soffuse, cercando i blu e i celeste, i bianchi delle nuvole e qualche elemento rosso a staccare. È il caso ovviamente del più di successo di tutti, Your Name, ma poi subito dopo lo stesso Makoto Shinkai l’ha confermato con Weathering With You e l’abbiamo visto accadere in molte altre storie strappacuore come Ride Your Wave di Masaaki Yuasa. Ora tocca a Tetsuro Araki, regista che ha adattato benissimo sia Death Note che L’attacco dei giganti in serie di successo, che ora si muove su una sceneggiatura di Gen Urobuchi che definire traballante è poco.

I due trasformano il classico setting post-apocalittico (un’amena apocalisse di bolle d’acqua in questo caso, che hanno invaso Tokyo rendendola una specie di Venezia diroccata e poi creando una strana gravità allentata per la quale molti oggetti fluttuano) in uno scenario idilliaco, in cui devastazione e distruzione ci appaiono in grandi giornate di sole, e il mood è più positivo che no. È l’idea migliore di Bubble, anche qui non originalissima ma comunque centrata. In questa Tokyo nella bolla gang di ragazzi si sfidano in tornei di parkour tra le macerie. In uno di questi, il più sensibile e solitario, inseguendo una voce rischia di morire affogato e verrà salvato da una ragazza/bolla/sirena che comincerà a frequentare.

Da qui in poi Urobuchi mescola La sirenetta agli anime sportivi ai classici del post apocalittico con pochissima maestria, cercando sempre di mantenere fermo l’intento di lavorare sul romanticismo tra i due protagonisti. A dimostrare l’inconsistenza di questa scrittura è proprio Uta, la ragazza/bolla/sirena, modellata come la Video Girl Ai di Masakazu Katsura ma pensata per non avere appeal sessuale. È semmai una Manic Pixie Dream Girl di poche parole, uno strumento per l’avanzamento della trama privo di personalità.
Dovrebbe rendere tutto più accettabile la direzione delle scene di parkour, animate in 2D e ambienti 3D, ma anche per via della palette di colori in comune, viene da pensare sempre che la soggettiva di Mirror’s Edge rimanga un modello non superato. Il problema di Araki (che in L’attacco dei giganti così bene aveva reso la furia delle dinamiche di “volo con cavi” dei protagonisti) è che in questo parkour non c’è nessuna tensione, nessun dinamismo, nessuna forza cinetica o senso della velocità.
Canzoni invadenti cercheranno di rimediare facendo solo peggio.

Cosa ne pensate della nostra recensione di Bubble, l'anime in streaming su Netflix? Ditecelo qua sotto!

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