Broken City, la recensione
Il thriller che riporta Mark Wahlberg ai suoi personaggi classici e si può fregiare di Russel Crowe nel ruolo di villain spreca entrambe le risorse...
Poliziesco che si fregia di essere vecchia scuola con tutto l'armamentario possibile di vita dura, whisky e botte tanto prese quanto date. Storie di poliziotti che camminano sul confine tra legale e illegale, cercando di salvare la propria anima, in cerca di una disperata redenzione ma irrimediabilmente presi in una rete più grande di loro nella quale costituiscono la carta impazzita.
Un poliziotto appena scagionato da un'accusa di omicidio riprende la sua carriera da detective privato e viene ingaggiato dal sindaco (a poco dal giorno delle votazioni) per indagare sull'infedeltà di sua moglie. Quello che scoprirà sarà ovviamente molto di più.
E proprio nel personaggio di Russel Crowe il film, che Allen Hughes dirige con poca verve, sembra trovare sprazzi di plausibilità e atmosfera. Più negli interni lussuosi dove si consumano ricatti che negli esterni disperati in cui ci si minaccia con la pistola. Nonostante una serie di idee non banali e delle possibilità di sviluppo interessanti, Broken City si perde nei dettagli e nelle atmosfere, nei dialoghi e nelle motivazioni dei personaggi. Vorrebbe essere una piccola chicca di serie B, un film dalle atmosfere cupe che si sporchi le mani con la corruzione e lo schifo che domina il mondo, con il coraggio di non offrire facili vie d'uscite, ma come un whisky di pessima marca, il colore non corrisponde al sapore e più si va avanti più vien voglia di smettere, invece che riceverne una botta di piacere proporzionale allo stordimento.
Risibile, infine, il teorico atto d'accusa verso le istituzioni e la corruzione che regna nelle amministrazioni cittadine.