Briganti, la recensione della serie

La recensione della nuova serie Netflix, Briganti, ambientata ai tempi dell'unità d'Italia. Un western atipico nello stivale

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La recensione di Briganti, la serie disponibile su Netflix dal 23 aprile.

Briganti ha tutto l'aspetto di una storia di pirati. C’è una mappa contenente un tesoro, una banda di criminali che lo cerca. Ci sono gli antagonisti che dovrebbero appartenere alla giustizia, o comunque allo status quo, ma è gente subdola e violenta, che si muove nella direzione sbagliata. I criminali sono una legge ombra, un governo segreto, più primitivo nel modo in cui si fa rispettare, ma anche una forza di liberazione. Solo che non tutti se ne sono accorti. 

L’idea di Briganti sta dalla parte giusta. Cioè di riappropriarsi dei fatti, delle leggende e dei miti italiani per trarre ispirazione per racconti non per forza accurati storicamente (la serie non lo è), ma che sappiano valorizzare il contesto storico. Il collettivo romano GRAMS riesce a usare in proprio favore l’ambientazione. Un sud Italia che guarda all’immaginario internazionale, un luogo riconoscibile, eppure al confine con il fantasy\western che dà alla serie uno sguardo che va oltre i confini nazionali. 

Si parte dalla delusione per la missione garibaldina che ha lasciato impoveriti i territori che ha toccato. Il brigantaggio che è esploso, come viene detto in un dialogo, implica una sospensione delle normali leggi. Inizia pertanto una guerra tra la banda Monaco e il generale Fumel che si articola in alleanze, tentativi di crearsi dei seguaci, e improvvise esplosioni di violenza. In mezzo: la ricerca dell’oro del sud. 

Il problema di Briganti sta nel voler essere tutto e niente. C’è una ribellione femminile e femminista, quella di Filomena (Michela De Rossi) che fugge dal marito violento e si reinventa brigante. C’è la cornice di una profezia di una donna che salverà il sud, ma anche la tensione verso un’imperfetta unità d’Italia che ha lasciato alcune zone devastate e impoverite. Non manca l’azione, ma sembra un passaggio obbligato in una trama fin troppo involuta che non riesce mai ad appassionare veramente. La fotografia patinata e le musiche piuttosto invadenti rappresentano le contraddizioni di un prodotto che guarda più al pubblico potenziale, andando a ricalcare atmosfere di altre serie di successo, che alla sua effettiva riuscita. 

Che tutto sia estremamente romanzato, non è un problema. A infastidire semmai è la superficialità con cui viene mostrato il brigantaggio. Non riesce mai a uscire dalle stringenti esigenze narrative e a farsi vera riflessione su quello che sarà la nazione negli anni a venire. Il tono western, un po’ alla Robin Hood un po’ alla Sergio Leone, pieno di citazioni, costringe Briganti a restare in un limbo.

Da una parte tutto è acceso, costituito, patinato, postmoderno. Dall’altra non c’è mai la sensazione che qualcosa di grave possa veramente capitare. Anche quando succede, la serie non riesce mai a legare le emozioni dello spettatore a quelle dei personaggi. È quello che accade quando si ha un’operazione ben pensata strategicamente per essere venduta su più territori, perfetta per il modello di intrattenimento delle piattaforme, ma che si dimentica di essere ambiziosa in altro modo. Non solo nel profilo produttivo, ma anche nella sua resa artistica. In quello che vuole dire, più che in come lo dice.

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