Breaking Bad 5x09 "Blood Money": la recensione

Per l'ultima volta ritorna Breaking Bad, e lo fa con un episodio intenso e sorprendente

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E si ricomincia ancora una volta dalla fine, dall'epilogo di una storia partita nel 2008 e che oggi inizia a percorrere gli ultimi passi verso il traguardo finale. Negli anni Breaking Bad più volte ha giocato con la nostra percezione in una sfida che ogni volta ci faceva perdere nei particolari mentre tutto intorno, senza che ce ne rendessimo conto, il grande quadro delle cose si andava formando. Una strategia che non si culla sull'inganno dello spettatore ma lo mette di fronte a se stesso e alle sue aspettative per costringerlo a colmare i vuoti appositamente lasciati dalla serie. Perché a quei vuoti che, come il buco nero della scalata al male di Heisenberg, risucchiano tutto e tutti bisogna prima o poi tornare per farci i conti. Breaking Bad lo ha fatto nella seconda stagione, quando per troppe puntate attraverso un occhio galleggiante in una piscina abbiamo costruito una storia tutta nostra, poi puntualmente smentita da eventi imprevedibili. Anni dopo varchiamo ancora una volta da una prospettiva futura la soglia di quella casa, ma stavolta non sembra esserci alcun dubbio: qualcosa si è spezzato per sempre.

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"Hello, Carol". Nelle sfumature di un semplice saluto che viene ripetuto due volte nello stesso episodio con esiti completamente opposti c'è tutta la dicotomia di un personaggio la cui doppiezza, quasi sovrapposizione di due entità completamente opposte, è diventata nel tempo uno dei cardini della serie. A livello interiore le figure di Walter White, il sottomesso professore di chimica che scopre di avere un cancro, e di Heisenberg, l'assassino manipolatore e spacciatore di metanfetamine, sono venute a coincidere da tempo (i due estremi di questo percorso sono le morti di Jane in Phoenix e quella di Gus in Face Off). Il flashforward di Blood Money, che prosegue quanto narrato nel prologo di Live Free or Die, pare invece comunicarci come anche a livello manifesto la doppiezza di Walt sia ormai una realtà che non può essere celata, come sottolineato da quel nome spruzzato sulle mura di casa. Da quel santuario nato per celebrare ciò che avrebbe potuto essere (l'idea di una famiglia felice) e finito per ricordare, anche con quella scritta, ciò che è stato, Walt si allontana con una fiala di ricina.

Se il futuro appare ancora come un miraggio lontano dai contorni astratti, il presente è una corsa frenetica verso uno showdown, uno degli ultimi, ma forse non quello decisivo, che vede inesorabilmente inseguirsi, scrutarsi e infine affrontarsi apertamente Walter e Hank. Breaking Bad si conferma la serie spiazzante per eccellenza. Qui, costretto di fatto a muoversi su binari prefissati, decide di sorprendere giocando d'anticipo, bruciando le tappe e proiettando l'inevitabile duello in un'intensa sequenza finale. Ancora una volta sguardi d'acciaio, dialoghi d'impatto, tensioni che, come quella che ci ha accompagnato per un anno, rimangono come sospese nell'aria, incapaci di trovare un punto d'appoggio e di assestarsi. La scrittura di Peter Gould, che quest'anno aveva già firmato Hazard Party, viaggia alta, volando da un personaggio all'altro, lanciando una panoramica generale che ci riporta allo sconforto di Jesse, alla complicità e durezza di Skyler, allo spettro di Lynda.

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E noi che conosciamo Breaking Bad sappiamo che nella creatura di Gilligan il diavolo – per una volta non intendiamo Heisenberg – si trovi nei dettagli, in quelle crepe che lievemente si aprono nell'animo dei protagonisti, scavando e scavando, per poi uscire fuori con forza ed esiti inaspettati. Arrivati a questo punto della storia, la serie può permettersi il lusso di una scrittura ancor più solenne, la gestione di ogni momento (anche di uno banale e grottesco come l'improbabile sceneggiatura di Star Trek di Badger) con il rigore di una potenziale scena madre, la capacità di omaggiare e al tempo stesso revisionare se stessa. Lo fa in un emblematico discorso tra Walt e Jesse, l'ennesimo nel quale l'ex professore cerca di irretire il suo vecchio discepolo. E più che la conferma dell'amoralità di Walter, che mente senza pudore sulla morte di Mike (ma dopo tutto quello che abbiamo visto non ci sorprendiamo), ciò che colpisce è, finalmente, la presa di coscienza di Jesse che, per la prima volta, non ci sta. Non vuole starci, non vuole più chiudere gli occhi.

È un Jesse diverso, che appare spezzato definitivamente dopo la morte del ragazzino ucciso da Todd, che ha perso parte di sé (e nemmeno gettare via i suoi soldi lo aiuterà). Ancora una volta ogni cosa quindi finisce per gravitare ed essere risucchiata da Walter, che pare portare in sé come un cancro (uno diverso rispetto a quello che forse gli è tornato) le anime degli uomini che ha ucciso negli anni, come quando si appoggia con le ginocchia su un asciugamano per vomitare (più un inside joke degli autori che altro, visto che Walt non dovrebbe conoscere quell'abitudine di Fring). In tutto questo la regia dello stesso Cranston è pulita, gioca con i chiaroscuri, con i campi e controcampi, raccontando l'esito dei momenti salienti e più ricchi di tensione con inquadrature totali fisse che ne sanciscono la fine a livello drammaturgico ma non narrativo (un esempio proprio la scena finale).

Breaking Bad è tornato. Godiamocelo.

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