Brave Ragazze, la recensione
La storia delle Brave Ragazze che a Gaeta negli anni '80 rapinavano banche viene dalla realtà ma è piegata fino a oscillare tra la solita commedia e Occhi di Gatto
Brave Ragazze, la recensione del film di Michela Andreozzi al cinema dal 10 ottobre
Che fatica che fa il cinema italiano con i personaggi negativi! Sarà che ci stiamo muovendo nel territorio del genere a partire dalla commedia (cioè con sceneggiatori da commedia, attori da commedia, registi da commedia…), sarà che esiste un timore sconosciuto alla nuova serialità che il pubblico necessiti di essere confortato e abbia bisogno di figure immacolate, fornite di ragioni condivisibili e forti rimorsi per ogni azione egoista o criminale. Sarà infine che non aderire al 100% al genere criminale puro sembra sempre più originale e unico, quando in realtà è ciò che fa la stragrande maggioranza dei nostri film, fatto sta che nei nostri film i protagonisti sono praticamente sempre buonissimi e onestissimi.
Lavoratrici, madri, mogli e studentesse più una di loro più scapestrata, comunque amiche, comunque di buon cuore. Le condizioni avverse, il maschilismo imperante e le più o meno improvvise difficoltà le spingeranno a tentare la carriera di rapinatrici mascherate da uomini. Perché nessuno sospetterebbe mai di una donna, forse nemmeno il nuovo commissario bello, single e del nord che viene a vivere nel palazzo di una di loro.
Dopo un inizio difficile, in cui Brave Ragazze fatica a costruire il setting d’epoca tanto da ricorrere spesso a dettagli, pratiche, espressioni e riferimenti demodè inseriti in modo evidentemente forzato, il film arranca anche a far percepire allo spettatore che le protagoniste abbiano vere motivazioni per andare in deroga alla propria onestà e per superare la naturale pavidità. È l’ostacolo tipico di questo genere e non è affrontato al meglio. La sensazione è sempre che il film creda che basti poco per convincere il pubblico e dare credibilità, quando in realtà non è così.
Parte della trama gira infatti intorno a una delle quattro (Ambra Angiolini) che imbastisce una storia con il commissario che indaga sul caso (Luca Argentero), tra casa, stazione di polizia e ristoranti in un trionfo di accenti finti e veri. Lei è la ladra, lui le sta vicino e la conosce sempre più intimamente ma non riesce a capirlo. Lei sbircia le sue indagini e teme di essere scoperta. A sorpresa è forse questa parte, quella che ricalca l’animazione giapponese, la migliore, perché porta nel nostro contesto dinamiche estranee, lontane e sperimentate in tutt’altre forme.
Il resto del film sarà un tentativo d’introspezione davvero troppo sommario per convincere, coronato da un finale veramente sconfortante tra redenzione, pentimenti e buone parole. Tutte dinamiche più vicine alla vecchia tv che al cinema, come quando qualcuno in un dialogo pronuncia la battuta dolce e sentimentale facendo scattare subito la colonna sonora in tono che lo accompagna fino alla risoluzione della scena.
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