Braindead 1x13 [season finale], la recensione

La nostra recensione del finale di stagione di Braindead, intitolato "The End of All We Hold Dear: What Happens When Democracies Fail: A Brief Synopsis"

Condividi

Il finale di stagione di Braindead scorre veloce verso la risoluzione di tutti i plot, senza prendersi minimamente sul serio, caricando su colpi di scena improvvisi, alcuni prevedibili altri meno, alcuni funzionali all’andamento del racconto, altri totalmente random.

Ne viene fuori una puntata inaspettatamente più vivace della maggior parte delle altre, aiutata dalla quantità di avvenimenti sparati a raffica che fanno correre l’episodio verso il finale a un ritmo piuttosto elevato, ma che al tempo stesso evidenzia che gli stessi autori si sono resi conto della personalità confusa della serie, e hanno deciso di prenderla sul ridere, accelerando ancora e senza preoccuparsi troppo di continuity, credibilità, legami con l’attualità e coinvolgimento emotivo.

Significativamente, il cantautore Jonathan Coulton, autore e interprete di tutte le canzoni-recap, entra letteralmente in scena nella prima e nell’ultima sequenza, una scelta che si piega al lato più surreale della serie - con tanto di interazione tra lui e i personaggi (Gustav all’inizio, Luke alla fine) - e che forse ci invita ad assumere il suo punto di vista di narratore ironico e scanzonato sugli eventi, dal momento che ogni parvenza di serietà è ormai svanita di fronte alla disinvolta incoerenza del tutto.

L’improvvisata dei genitori di Gareth liquidata in pochi secondi di imbarazzo è esemplare della velocità nonsense con cui è impostato l’episodio, in cui si accumulano personaggi, risoluzioni, cambi di rotta e colpi di scena uno dietro l’altro. Mentre la storia fra Laurel e Gareth è ormai stabile, si stabilizza anche l’alleanza di lui con il gruppo anti-insetto: il piano prevede di sabotare la costruzione dell’enorme serra scoperta da Laurel, con l’aiuto di Gareth che trova (convenientemente) un badge di Red da passare a Gustav e Rochelle.

A proposito di sabotaggio, il sit-in di Luke fallisce macanza di copertura mediatica: solo un colpo di scena può riportare i politici a unirsi nella protesta, così Luke si fa arrestare gridando alla violenza dei metodi repressivi repubblicani. Il revival della lotta per la libertà di parola evidentemente riporta molti dei democratici agli anni dell’attivismo politico giovanile, che accorrono a protestare pacificamente e a cantare in coro in quella che, vista dall’esterno, appare piuttosto una patetica parodia di ribellione: serve in ogni caso a rimandare il voto, almeno finché Luke non è costretto a interromperlo sotto minaccia di diffusione di un sextape girato da Scarlet (incredibile che questa mossa non fosse stata già tirata fuori). Tra intuizioni ed espedienti improvvisi, Luke riesce comunque a fermare Red ricorrendo a Stockwell e alla sua abilità con il “legalese”, salva la democrazia ma rimane un pessimo essere umano se, come il finale ci suggerisce, si troverà meglio tra gli squali di Wall Street che al servizio degli elettori.
Mentre l’improbabile tentativo di Gustav di spacciarsi per Wheatus ed entrare nella serra fallisce, c’è tempo anche di passare da casa Healy per una rapida immersione nella travagliata relazione padre-figlia: come Laurel ha modo di scoprire, la vergogna è adesso un antidoto all’infezione, e non c’è niente di più vergognoso per un padre che ricordare il male che ha fatto a sua figlia bambina. Nell’unica nota amara della puntata, anch’essa liquidata in velocità, la fuga dell’insetto dalla testa di Dean lo riporta nello stato semi-incosciente della malattia.

Si potrebbe interpretare Braindead come una gigantesca presa in giro dei generi e del conspiracy movie

La palma della rivelazione più inattesa e senza senso va probabilmente a Gustav agente dell’NSA, una svolta totalmente inutile che serve soltanto come last minute rescue di fronte alla concreta possibilità di finire arrestati. Lo showdown finale tra Red, Laurel, una pistola e Gareth accorso in aiuto precipita invece nel semi-demenziale quando a risolvere una volta per tutte la temibile avanzata dei bugs è l’ignaro stagista Gary, che fa per sbaglio quello che a chiunque sarebbe venuto in mente di fare con un insetto alieno: lo schiaccia. La Regina è morta, gli insetti lasciano i cervelli, l’umanità è salva. Il lieto fine cantato ironizza sulle differenze ideologiche dei neo-conviventi Laurel e Gareth, e lo svelamento di un’ulteriore minaccia sembra più un ammiccamento che un reale cenno alla (eventuale ma anche improbabile visti i bassi ratings) seconda stagione.

Alla luce del rocambolesco finale e della sfacciataggine con cui tutto viene ribaltato a piacimento, si potrebbe interpretare Braindead come una gigantesca presa in giro dei generi e del conspiracy movie, ma per prendere in giro qualcosa è necessaria una padronanza dei mezzi di partenza e una solidità che alla serie sono palesemente mancati fin dall’inizio, e la sgangherata verve finale è troppo poco per dimenticarsi del resto.

Nonostante il pedigree dei coniugi King e un cast di tutto rispetto, chi si aspettava un raffinato erede satirico di The Good Wife ha dovuto presto ricredersi, così come chi si attendeva un’incursione spinta nella fantascienza splatter. La strada del divertissement ironico, o dell’apologo sull’idiozia al potere, avrebbe potuto funzionare se la serie l’avesse intrapresa con più convinzione: è rimasta invece per troppo tempo a metà tra l’assurdo e il plausibile, pur pendendo sempre un po’ di più verso il primo, senza possibilità di nascondere l’approssimazione della scrittura dei personaggi e della concatenazione degli eventi. Cosa rimane dunque di questi tredici episodi di stranezze e svolte-lampo, personaggi ora virtuosi ora detestabili, sfacciati mix di generi e direzioni narrative continuamente prese e interrotte?  Alla fine quella che già era l’intuizione iniziale, per cui non servivano certo tredici puntate: debellata l’invasione, lasciati sul campo indisturbati i superstiti con metà cervello, la differenza con la qualità del discorso politico pre-alieni non è poi molta, né la differenza tra dem e repubblicani, perché agli uni e agli altri manca il senso del ridicolo.

Continua a leggere su BadTaste