Tra idealismi politici e artistici, il decimo episodio di
Braindead affronta da un lato l’interscambiabilità degli
estremismi, dall’altra la divergenza creativa e l’eterna contraddizione tra aspirazioni e realtà, prima di un finale che riporta al centro l’operazione insetto.
All’ordine del giorno in Senato c’è il voto sull’intervento in Siria, che Ella Pollack e Red Wheatus sostengono allo stesso modo, facendo leva sui peggiori istinti populisti dei loro elettori più agguerriti. Luke Healy ha bisogno di controbattere in modo altrettanto semplicistico ed efficace, ingaggia dunque il filmaker Ben Valderrama per produrre un documentario virale che serva la causa anti-intervento e fermi i repubblicani; a supervisionare il lavoro un’imbarazzata Laurel, per via della sua conoscenza passata con il regista, ormai molto più famoso di lei.
Nel video Ben concentra tutto il marcio contemporaneo sul famoso 1% e sulle responsabilità di Wall Street, che Laurel ritiene invece fuori luogo, almeno in questo caso: su suo suggerimento decide allora di intervistare alcuni estremisti allo scopo di ragionare sull’inutilità della guerra. Il primo ad essere intervistato è Gareth, chiamato perché ha contribuito all’
astroturfing, il termine politico della puntata, che secondo
Wikipedia “definisce la creazione a tavolino del consenso proveniente dal basso, della memoria o della storia pregressa di un'idea, un prodotto o comunque qualsiasi bene oggetto di propaganda”. I metodi di Ben sono discutibili, costruiti sulla provocazione e sulla denigrazione dell’intervistato/avversario. La figura del filmaker “di sinistra” non esce dunque affatto bene, come del resto quasi nessun altro dei personaggi coinvolti a vario titolo con le stanze del potere.
Braindead infatti ci tiene sempre a sottolineare che nessuno è esente da debolezze, errori ed egoismi: se il filmaker Valderrama appare un presuntuoso e superficiale pallone gonfiato, anche Luke ci ricorda quanto sia difficile empatizzare con qualcuno in questa serie. La sua recidiva incapacità a non tradire la moglie incinta è oltremodo irritante e patetica, ma d’altra parte il tentativo di approfondire finalmente il personaggio di Germaine riesce solo a metà. Se è del tutto comprensibile che la donna stia vivendo male la propria maternità, e che si rivolga a Laurel, la sua personalità appare delineata solo in relazione al matrimonio e al parto, mentre finora le responsabilità di Luke vengono liquidate con il suo ritorno sotto il tetto coniugale dopo aver ipocritamente rotto con le varie amanti.
L’unica depositaria di un po’ di
buon senso sembra sempre e solo Laurel, la più umana, la più comprensiva: tutta questa ragionevolezza la appiattisce un po’, ma d’altra parte ormai sappiamo che la serie non lavora mai di sfumature. Laurel risolve i problemi e intuisce i guai: è Laurel che riesce a improvvisare un testo in voice over da inserire nel documentario di Valderrama, rimontandolo in modo da mostrare l’idea di una dannosa propensione estremista che si è impossessata di entrambi gli schieramenti, un’infezione, appunto; è Laurel che raggiunge l’obiettivo di Luke e accetta di non prendersene il merito, visto che il nome sul documentario rimane quello di Valderrama; è poi l’unica ad accorgersi che qualcosa non va nella gravidanza (e che per quanto comprensibile non è normale che una bambina non ancora nata si agiti al suono della voce di Trump) ma rimane inascoltata. L’ultima scena sembra darle ragione, anche se non è chiaro come sia potuto avvenire un eventuale contagio della piccola Grace prima ancora della nascita… Ancora una volta la sottovalutazione di una coincidenza come quella tra l’insistenza del medico a lasciar perdere e l’onnipresente canzone dei Cars fa alzare il sopracciglio. E soprattutto, dov’è finito Gustav, l’unico che difficilmente avrebbe liquidato le domande di Laurel come paranoie?