Brado, la recensione

Western nell'animo ma poi estremamente nostro negli esiti, il terzo film da regista di Kim Rossi Stuart è un'opera di eccezionale potenza

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Brado, il film di Kim Rossi Stuart in sala dal 20 ottobre

Quando mai capita di poter dire di un film che usa proprio le lenti giuste? Quando mai quel dettaglio molto tecnico che ha a che fare con le proporzioni e le dimensioni degli elementi dentro un’immagine è così buono da risaltare e far svoltare anche tutto un film? Avviene in Brado, il film più sorprendente tra i tre girati da Kim Rossi Stuart, il più tecnico, imprevedibile e deciso. Storia che di western ha solo la presenza dei cavalli e lo spirito (in realtà si svolge oggi nella campagna del Lazio), che chiude e sublima la grande storia di Renato e Tommaso, padre e figlio già visti nel suo debutto alla regia, Anche libero va bene. Quello era un gran bell’esordio per quanto dallo stile classico nostrano, il film successivo (Tommaso) invece era sembrato più ambizioso e molto meno riuscito. Questo è un ibrido di tante ispirazioni stupendo.

Scritto dallo stesso Kim Rossi Stuart con Massimo Gaudioso, Brado è calcato sulla visione di mondo di Eastwood e su quel tipo di cinema dotato di una grandissima forza espressa però con una quiete che non la depotenzia, anzi gli leva ogni fronzolo e abbellimento per lasciarla pura. Al centro c’è Renato, padre durissimo che ha cresciuto due figli ormai grandi che ora vivono da soli ma non hanno un buon rapporto con lui, proprio per il suo caratteraccio. È finito isolato in campagna ad allevare cavalli e vivere come un selvaggio. Un incidente nel tentativo di domare un cavallo indomabile lo mette in difficoltà e il figlio Tommaso deciderà di dargli una mano nonostante la ruggine. Da qui ricomincia la convivenza tra i due e il loro rapporto va rimesso in piedi quasi da zero, un rapporto tra una persona ordinata e un selvaggio vitale e indomabile che vorrebbe però domare gli altri. 

Brado è un film senza dubbio nostro, con tutta la nostra concentrazione sulle relazioni ma non ha paura di rubare al cinema indipendente americano strutture e qualche soluzione di scrittura, uno che sa prendere quello che gli serve dove gli serve senza abusare ad esempio del tono western ma usandolo per come è in grado di mettere sullo schermo le asperità degli uomini e il loro modo di relazionarsi per percorsi strani e obliqui. E quando deve fare tensione Brado la fa benissimo, usando il sonoro, cioè sia una grande colonna sonora e solo i rumori. Quando deve avvicinarsi alle persone è altrettanto perfetto (cosa che davvero stupisce per tutto il film, fino ad un finale difficilissimo e riuscito) perché non sceglie i toni forti ma opta per un minimalismo espressivo potentissimo, fatto di microespressioni, gesti che è facile perdersi se non si sta attenti e singole parole dette una volta sola senza alcuna enfasi.

Kim Rossi Stuart ancora meglio di come aveva fatto in Libero va bene sa accendersi di una rabbia autentica, dimostrando un carattere dallo spettro molto ampio, che tra una dolcezza nascosta e una rabbia palese fa intuire tutte le sfumature. Il suo Renato rincorre il riscatto di una vita che è anche dimostrazione che quel carattere lì e quell’etica, gli stessi che gli hanno inimicato i figli, erano giusti. Brado (ma che titolo stupendo è??) è così intelligente ad un certo punto da farci capire che tutto questo non conta, perché scopriamo che in realtà fin dall’inizio incombeva uno specifico film di Eastwood, e sarà chiaro quale solo nella chiusura della parabola. Ma il modello è davvero tale solo per lo spirito, Brado è un film autonomo, indipendente e pieno di sentimenti e relazioni complesse da raccontare ma molto chiare, specialmente quando alla fine arriva il flashback notturno di un fatto che ci era stato già accennato in un modo e non avevamo intuito essere così significativo, che sarebbe davvero sminuente guardarlo solo in base ai propri modelli. Questo è un vero grande film.

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