Boys, la recensione

Cinema senile che disprezza il presente e il moderno crogiolandosi nella poetica della sconfitta, Boys è quanto di peggio sappiamo fare in Italia

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Boys, la recensione

Non c’è niente nella commedia italiana che non possa essere risolto da uno spostamento verso la provincia, il più possibile lontano dai centri urbani. Nei film italiani sono questi luoghi mistici “là dove i cellulari non prendono”, i nostri Shangri-La. Anche Boys, che in realtà sarebbe un film sulla scia del cinema senile americano, uno in cui anziani che vivono una vita da anziani lamentandosi di essere anziani spezzano la routine grazie ad un evento eccezionale e cercano di dimostrare di poter ancora vivere una vita piena come quando erano giovani, finisce nell’imbuto della fuga dalla modernità. Perché il suo obiettivo non è poi diverso dagli altri: affermare che tutto è andato in malora e solo chi viene dal passato lo riconosce.

Con un cast da fiction e la presenza di Giovanni Storti che non fa che mettere in luce quanto le premesse di Boys siano simili a quelle dei film di Aldo, Giovanni e Giacomo (nella maniera in cui i protagonisti vivono un presente di insoddisfazione), Davide Ferrario liscia il pelo a tutto il pensiero passatista, e si crogiola nei luoghi comuni: i trapper sono dei prodotti nelle mani di qualcun altro, dei non-musicisti beceri senza cultura, sottoprodotto dei talent come X-Factor (chiaramente anch’essi il male), che niente hanno a che vedere con la musica, che è solo quella di una volta. Questo già basterebbe a qualificare la visione del mondo, ma Davide Ferrario ci aggiunge il fatto che le musiche del film (scritte da un’autorità vera, Mauro Pagani, ma non per questo buone) mostrano un’idea di rock vicina alla musica di Ligabue.

Anche passando sopra tutto questo (e ce ne vuole!) questa storia di membri invecchiati di una band cui un trapper propone l’acquisto di tutto il loro catalogo e che devono recuperare una loro corista per l’ultima firma, ha il suo vero grande problema nella commedia. L’umorismo non esiste, non è proprio nella storia, viene semmai iniettato ogni tanto con inserti che suonano forzati perché non discendono dagli eventi ma sono aggiunti. Talmente è goffo Boys da ricorrere a trovate generiche, mai originali, prelevate da altri film se non proprio archetipi, le gag usate da tutti, come ad esempio il discutere in un luogo pubblico e farsi uscire a voce alta dettagli intimi.

È evidente che Boys vuole avere un tono autunnale, ma l’idea che ha di tono autunnale è amalgamata malissimo con quella di commedia. Invece di fare in modo che i due toni si causino e quindi alimenti a vicenda sono semplicemente giustapposti. Una scena di un tipo accanto ad una di un altro. Il risultato di questa idea di tono autunnale è solo una cronica mancanza di ritmo, di nuovo non aiutata da musiche anch’esse dal ritmo blandissimo. Insomma non diverte e dall’altra parte non riesce nemmeno a raccontare qualcosa di intimo e sincero ma semmai di lamentoso e con scarsa cognizione di quel che narra.
A questo punto il fatto che ricorra al solito viaggio verso la provincia non stupisce più, ma semmai stupisce la maniera in cui si bei della poetica degli sconfitti, per ribadire ancora un ultimo luogo comune: che i migliori, i più seri, più validi e più puri (siano musicisti o giornalisti con una vera cultura e la schiena dritta) sono quelli che non hanno successo.


BadTaste è anche su Twitch!

Uno dei critici di BadTaste, Francesco Alò, è tra i direttori del festival di Taormina in cui è stato presentato il film Boys

Continua a leggere su BadTaste