La cospirazione del Cairo - Boy From Heaven, la recensione | Cannes 75
Vicino al linguaggio della serialità televisiva migliore Boy From Heaven usa lo spionaggio per una denuncia facile, ma disegna bene i personaggi
Contrariamente alla trita vulgata delle serie tv che “sembrano proprio dei film”, Boy From Heaven è un film che “sembra proprio una serie tv”. Del mondo seriale contemporaneo ha il culto degli antieroi, l’esplorazione del marcio (nella società come nelle persone), l’ambientazione particolare e fascinosa e la capacità di lavorare sulla scoperta, l’intrigo, il mistero e la maturazione di un personaggio che parte in un modo e finisce in un altro.
Come le serie tv non tutto ha il medesimo livello di ricercatezza, Boy From Heaven sa sconfinare nel sempliciotto a tratti, tuttavia in questa sua trama da Un profeta con l’università al posto della prigione (sia chiaro, senza quel grado di eccezionale astrazione), sa inserire personaggi eccezionali che con un piede stanno nella tradizione e con l’altro cercano di essere originali. È il caso dell’agente segreto scapigliato e sciatto, un uomo grigio con grandi capacità burocratiche e un gran mestiere nelle cose di spie, che unisce bene il segreto delle spie migliori al cinema, ovvero l’ordinarietà della vita unita all’eccezionalità di ciò che la professione gli impone. Ma anche il candidato Grande Imam non vedente è un personaggio eccezionale, da Il nome della rosa.
In una trama (e una risoluzione) abbastanza schematiche e sempliciotte, la differenza la fa questo processo di maturazione di un’intelligenza molto in linea con la tradizione culturale islamica, in cui la parola, il discorso e il ragionamento sostituiscono la violenza, in cui parlare e convincere è un’arma potentissima e nel quale imparare i codici per comportarsi è fondamentale. Che poi imparando tutto questo ci si trasformi nei perfetti pupazzi dello stato è la conclusione migliore.