La cospirazione del Cairo - Boy From Heaven, la recensione | Cannes 75

Vicino al linguaggio della serialità televisiva migliore Boy From Heaven usa lo spionaggio per una denuncia facile, ma disegna bene i personaggi

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Boy From Heaven, in concorso a Cannes

Contrariamente alla trita vulgata delle serie tv che “sembrano proprio dei film”, Boy From Heaven è un film che “sembra proprio una serie tv”. Del mondo seriale contemporaneo ha il culto degli antieroi, l’esplorazione del marcio (nella società come nelle persone), l’ambientazione particolare e fascinosa e la capacità di lavorare sulla scoperta, l’intrigo, il mistero e la maturazione di un personaggio che parte in un modo e finisce in un altro.

Siamo all’università di al-Azhar, principale centro di insegnamento del mondo islamico sunnita, in Egitto. Il protagonista, figlio di un pescatore, ha avuto l’incredibile possibilità di frequentarla. Lì vive con altri studenti ed entra in contatto con i massimi livelli della religione. Quando però viene il momento di eleggere il nuovo Grande Imam (massima figura religiosa che in Egitto ha un potere anche politico) i servizi segreti interni dello stato prendono contatto con il figlio del pescatore: vogliono che sia lui la loro talpa là dentro e non è un’offerta rifiutabile. Parte così l’esplorazione dell’altro lato di quel mondo, fatto di correnti, reclutamenti, violenza, minacce e omicidi.

Come le serie tv non tutto ha il medesimo livello di ricercatezza, Boy From Heaven sa sconfinare nel sempliciotto a tratti, tuttavia in questa sua trama da Un profeta con l’università al posto della prigione (sia chiaro, senza quel grado di eccezionale astrazione), sa inserire personaggi eccezionali che con un piede stanno nella tradizione e con l’altro cercano di essere originali. È il caso dell’agente segreto scapigliato e sciatto, un uomo grigio con grandi capacità burocratiche e un gran mestiere nelle cose di spie, che unisce bene il segreto delle spie migliori al cinema, ovvero l’ordinarietà della vita unita all’eccezionalità di ciò che la professione gli impone. Ma anche il candidato Grande Imam non vedente è un personaggio eccezionale, da Il nome della rosa.

Tra intrighi da Vaticano, critica alla violenza del regime egiziano e infiltrazioni di correnti estreme nella religione sunnita, Boy From Heaven si assicura di farci parteggiare sempre per i cattivi perché nella grande guerra per l’elezione del nuovo Grand Imam vinca quello che vuole il governo, quello che non darà problemi. Solo così si salverà il protagonista, stretto tra due fuochi e da un certo punto in poi capace di affidarsi solo alla sua intelligenza per tirarsi fuori da intrecci mortali.
In una trama (e una risoluzione) abbastanza schematiche e sempliciotte, la differenza la fa questo processo di maturazione di un’intelligenza molto in linea con la tradizione culturale islamica, in cui la parola, il discorso e il ragionamento sostituiscono la violenza, in cui parlare e convincere è un’arma potentissima e nel quale imparare i codici per comportarsi è fondamentale. Che poi imparando tutto questo ci si trasformi nei perfetti pupazzi dello stato è la conclusione migliore.

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